Recensione: Transumanza
A due anni dal notevole “Le Forche Caudine” tornano i Dawn of a Dark Age con “Transumanza”, terzo capitolo della tetralogia dedicata al Sannio e ai Sanniti che qui raggiunge il suo climax emozionale con la trattazione della migrazione stagionale di pastori e greggi lungo i tratturi. Argomento apparentemente bizzarro per un album metal, quello della transumanza, ma che a un esame più attento si svela come perfettamente in linea con lo spirito che anima la creatura del polistrumentista Vittorio Sabelli, legatissimo alla sua terra e alle relative tradizioni. La musica dei Dawn of a Dark Age, un eccellente mix di black metal, folk, jazz e world music, abbraccia in toto lo spirito del concept per incanalarne gli echi, facendosi carico delle sue suggestioni e dipingendo con rapidi tocchi scene a metà strada tra narrazione epica, respiro bucolico e la cruda durezza della realtà. La materia sonora dei nostri si fa multiforme, travalicando i meri confini dei generi citati per creare un vortice eclettico ed emozionale, frutto del sapiente mix dei sunnominati generi. Il primo livello della musica di “Transumanza” parte da un black metal d’avanguardia e lo screzia di melodie bucoliche, rapide sfuriate dal respiro epico, innesti di folk arcigno e pennellate distese, compassate, che rievocano il contegno misurato di una vita di duro lavoro resistendo ai rigori della natura. Fin qui tutto bene, ma ecco che su questo primo strato se ne innesta un secondo, forgiato su comparto vocale che non è certo da meno. “Transumanza” vede la partecipazione di due voci femminili all’interno della nutrita compagine di ospiti che accompagna mr. Sabelli, che coi loro toni suadenti donano alla musica del combo molisano una rotondità popolare, distaccandola per qualche attimo dal gelo che ne costituisce la base per colorarlo di una severità materna. Proprio il gioco delle voci costituisce uno dei tratti caratteristici della proposta di “Transumanza”, in cui i ruggiti di Emanuele si scontrano con i toni squillanti di Nicole e Alessandra e gli interventi narrativi dello stesso Vittorio. Per la verità, il tono gracchiante di quest’ultimo fa sorridere in più di un’occasione, ma va comunque detto che quando c’è da buttare giù un carico il Sabelli non scherza neanche per un secondo (si veda la ripartenza dopo lo stacco narrato nell’ultimo terzo di “I Regi Tratturi”, di una bellezza disarmante).
Si parte con “La Scasata”, traccia narrativa che si regge su un arpeggio rilassato e sulle rapide incursioni del clarinetto per creare un tappeto sonoro su cui si innesta il vocione di Sabelli, che introduce il contesto e il tema del lavoro. La narrazione sfuma nella lunga “Transumante”, pezzo cangiante in cui già si notano gli elementi chiave dell’album: un andamento nervoso, dagli spiccati rimandi a certo jazz irrobustito da ripetute iniezioni metalliche, si colorano di toni ora caldi, ora frenetici mentre le voci si alternano al centro della scena, per poi intrecciarsi nel primo climax del pezzo che sfuma in un fraseggio dimesso dal retrogusto paesano. La musica mantiene una spiccata matrice folk per tutta la parte centrale, tornando a caricarsi del nervosismo già incontrato all’inizio per sfumare di nuovo in un pezzo dallo smaccato retrogusto folkloristico e popolare. Un arpeggio languido apre “Preghiera Pagana (dell’Abbandono)”, breve canto crepuscolare dai profumi antichi che viene spazzato via dalla furia de “Il Gran Tratturo Magno”. L’incipit protervamente black si innesta su un tessuto sonoro multiforme, jazzato e cangiante, in cui passaggi frenetici ed arcigni si legano a digressioni strumentali sornione, seducenti, punteggiate da un clarinetto che disegna orizzonti lontani. L’impennata folk arriva all’improvviso, caricando il pezzo di una nuova energia dagli echi epicheggianti che ci accompagna al finale nuovamente frenetico. La bucolica “Cantico tra Cielo e Mare” incede con la placidità quasi liturgica di un canto popolare, sorretto da un arpeggio semplice screziato di tanto in tanto dagli inserimenti di cori e clarinetto, mentre con la già citata “I Regi Tratturi” si torna sull’attenti. La matrice black dei nostri si carica di un’epicità fredda ma molto sentita, colorata ora di folk e ora di jazz dagli sporadici innesti del clarinetto e benedetta dalle intromissioni della voce femminile. L’improvvisa digressione più smaccatamente folk dona al tutto un’aura minacciosa ed ambigua, prima di aprire all’incursione narrativa che poi esplode nuovamente nell’epica gelida e vorticante, chiudendosi poi con note solitarie e compassate e il frinire dei grilli che ci conduce alla conclusiva “Preghiera Pagana (del Ritorno)”. Si riprende qui la preghiera pagana già incontrata (anche se precedentemente solo accennata) e la si sviluppa come una sorta di processione popolare, un botta e risposta tra la voce femminile e la fanfara del coro. Il suono delle campane chiude il pezzo sfumando nel silenzio, per cedere poi spazio alla ghost track, che non vi descrivo per lasciarvi la sorpresa.
Senza girarci troppo intorno, “Transumanza” è un altro centro per i Dawn of a Dark Age: un lavoro sentito e passionale, onestissimo ed evocativo, nato dall’amore sincero di un uomo per la sua terra e le sue tradizioni e che trova qui un perfetto tramite espressivo. Da ascoltare e riascoltare.