Recensione: Traveller
Prolifico ai limiti dello stacanovismo, il mastodontico mr. Lande.
Dodici mesi giusti, giusti, per dar luce a ben tre release discografiche, licenziate con la consueta affidabilità da Frontiers Records, label che immaginiamo ben contenta di potersi avvalere del servigi di un artista tanto produttivo.
“Bring Heavy Rock To The Land” – album di inediti – “Symphonic” – sorta di greatest hits orchestrale – ed ora il recentissimo “Traveller”, sono andati così a rimpinguare una discografia già densa e ricca di contenuti, sia sotto il versante solista, sia per tutto ciò che riguarda le innumerevoli e pressoché inquantificabili collaborazioni di cui il lungocrinito singer norvegese si è reso protagonista sin dai tempi dei Vagabond (erano gl’inizi degli anni novanta).
Quattro lustri di carriera per lasciare un segno tangibile e definitivo di bravura e grandezza canora ma, soprattutto, utili nello stabilire un trademark fisso ed indeclinabile, magari un po’ privo di sorprese, ma decisamente ricco di buoni motivi d’interesse e spunti di qualità.
Attraente in particolar modo, alle orecchie degli appassionati di suoni hard rock “classici”, di quelli dominati da una voce stratosferica ed olimpicamente divina (ce lo vedremmo, Jorn, nei panni di Zeus in una sorta di musical rock!).
“Traveller”, ottavo album solista del potente frontman scandinavo, vive e si dipana – tanto per essere chiari sin dalle prime battute – sulle basi della stessa, identica “jornite” che ha reso caratteristici la gran parte dei capitoli precedenti. Evitando di scomodare i primi episodi, tutt’ora di materia “superiore”, quali “Starfire” e “Worldchanger”, ma facendo tuttavia segnare un piccolo passo in avanti (o a ritroso nel tempo, se vogliamo) in quanto a fluidità delle melodie ed orecchiabilità – per così dire – immediata.
La formula, pare ovvio, non subisce alcun tipo di variazione di sorta, presentando la stessa ed incrollabile ricetta di sempre, fatta di riff chitarristici a metà strada tra hard rock e class metal, ritmi che non vanno mai oltre i tempi medi ed un’interpretazione intensa, furibonda, carnivora, come è da sempre nello stile dell’immane vichingo.
E come sempre, non mancano i tipici riferimenti “Dio-based”, riconducibili idealmente a quello che è stato il mentore assoluto di Lande, l’unico e compianto Ronnie James.
Ci sono però, qua e là, alcuni sprazzi che – a differenza delle ultime uscite – si affrancano almeno in parte dall’heavy rock tetragono e furente della tradizione, per dare qualche piccolo spazio ad aperture melodiche che, stimolando reconditi anfratti della memoria, sembrano voler resuscitare alcune atmosfere proprio dell’eccellente “Worldchanger”, ampliando la scala delle sensazioni e delle sfumature presenti in quello che appare sin dai primi ascolti, come un album massiccio e ben confezionato, ancorché non troppo “fantasioso” nella forma.
Ed ecco presentarsi una serie di brani tosti, lineari ma comunque conditi di discreto buon gusto, quali la stessa title track “Traveller”, traccia cesellata da interventi chitarristici ad opera del bravo Trond Holter (proveniente dai Wig Wam), la riuscita e cadenzatissima “Make Your Engine Scream” – un brano in cui Lande esplode un ritornello impossibile da replicare per qualsiasi comune mortale – la successiva “Legend Man” – che, chissà perché, sembra un po’ ricalcare la straripante “Tungur Knivur” – e la scalciante “Rev On”, inno al rock tutto potenza e grinta, dal sorprendente coro centrale.
Una volta tanto un pelo “ariosa”, è invece “Moonsoon”, canzone che si avvale ancora del prezioso contributo di Holter in una parte mediana “sognante” ed onirica, in netto contrasto con il profilo incazzoso del pezzo.
Inevitabile poi, il tributo finale a Ronnie, rappresentato dalla epica “The Man Who Was King”, l’ennesimo indizio che rende evidente la profonda devozione provata da Jorn nei confronti dell’insostituibile Ronald James Padavona.
Hard rock fiero ed energico in sostanza, con qualche allargamento alle armonie di facile ascolto e partiture orecchiabili, che si inserisce nella tradizione di uno modo di far musica ormai incapace di sorprendere ma sempre e comunque dotato di buona sostanza e determinazione.
L’album cresce con gli ascolti e nemmeno questa è una novità. Come non apparirà nulla di nuovo ed originale la considerazione conclusiva nel commentare un classico, tipico e prevedibile disco “alla Jorn”.
Il songwriting non è (e forse non sarà mai) alla pari della grandissima voce in possesso del sommo singer scandinavo. In ogni modo, la consistenza di un prodotto solido e con qualche buona trovata, c’è tutta anche questa volta: alcune buone idee, un paio di sbadigli qua e la.
Il solito Jorn, insomma…
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