Recensione: Tribute To Van Halen Best Of Both Worlds

Di Filippo Benedetto - 22 Febbraio 2004 - 0:00
Tribute To Van Halen Best Of Both Worlds
Band: AA. VV.
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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55

Ho sempre reputato i Tribute operazioni rischiose per gli artisti che vi prendono parte per un semplice motivo: difficilmente un artista, in sede di cover, riesce a cogliere appieno “lo spirito” e “l’essenza” del pezzo da suonare  e della band da “interpretare”. Chiarito questo punto preliminare, cominciamo con l’analisi del disco qui oggetto di recensione, cioè “Tribute to Van Halen, Best of Both Worlds”. Il titolo lascia intendere a chiare lettere che è intenzione degli autori di questa raccolta “esplorare” il mondo (musicale) dei Van Halen, “satelliti” inclusi (i percorsi solisti di Hagar e Lee Roth). Metto, dunque, da parte dubbi, interrogativi e riserve preliminari all’ascolto del disco in questione e mi accingo all’analisi del prodotto.  
Questo Tributo ai Van Halen vede, innanzi tutto, tra i partecipanti alcuni nomi dell’hard rock tra cui possiamo citare: Enuff Znuff, Jimmy Crespo, George Lynch e Richard Kendrik per citarne solo alcuni. 

“Panama” (Jimmy Crespo e Richard Kendrik): il brano comincia bene, ben impostato e si lascia ascoltare piacevolmente. A grandi linee si può affermare che in questo brano sia stata colto lo “spirito” della band capitanata da Eddie Van Halen. Questa prima cover, quindi, lascia ben sperare.

“Shyboy” (Jimmy Lynch, Tony Hammel, Jason Mc Master): qui non ci siamo proprio. La chitarra interpreta male quelle apperentemente “assurde” divagazioni soliste di Steve Vai e soprattutto nell’assolo che avrebbe dovuto essere “a due” (basso e chitarra all’unisono) lascia alla sola chitarra il compito di fare quel miracolo che era stato compiuto dal duo Vai/Sheehan, qui con dubbi risultati. In più si sente un’inopportuna quanto fastidiosa doppia cassa che sta un po’ troppo avanti agli altri strumenti.

“Yankee Rose” (Enuff Znuff): la situazione non migliora stabilizzandosi nello standard della mediocrità sopra accennata. Ricordate l’intro in cui la chitarra di Vai dialoga sghignazzando con Lee Roth? Beh, qui la riproduzione del famoso “dialogo” offre più di uno spunto di critica per la poca presa sull’ascoltatore e soprattutto per l’interpretazione troppo “pesante” del cantante che esibisce un’interpretazione certamente scadente. In più le ritmiche sono troppo rallentate rispetto al brano originale, segno di mancata assimilazione della frivolezza che il brano dovrebbe dare all’ascoltatore. 

“Ain’t talking about love” (Jet Blacky Joy): qui lo scempio viene compiuto. La classicissima song dei Van Halen viene stravolta sotto tutti i punti di vista: vocals, lavoro di riffing (poco efficace persino nelle parti in cui la chitarra si fa più “soffusa”) oltre al il drumming che, qui, è poco preciso ed efficace.

“Tabacco Road” (Corey Graven) : si nota in questo pezzo un tentativo di riprendere lo “spirito” della band di David Lee Roth con risultati più soddisfacenti. La voce cerca di carpire, in particolare, lo spirito “clownesco” di Diamond Dave, con l’opportuna discrezione  e quindi senza scadere eccessivamente nella farsa.  L’assolo si dilunga un po’ troppo ma si nota un tentativo di stuzzicare l’ascoltatore e di mantenerne viva l’attenzione.

“Take your wiskey home” (American Dog): anche qui si nota una discrepanza tra la quasi fedele esecuzione strumentale e la parte vocale che proprio non riesce a “cogliere” il senso dell’interpretazione di Dave (anche qui la voce è eccessivamente roca e sporca). In ogni caso è l’arrangiamento del brano in sede strumentale a convincere un pochino di più, mantenendosi su livelli rispettosi della pezzo originale.

“Mas tequila” (Full Tilt): sembra che le cover più riuscite siano quelle che prendono spunto dal repertorio di Sammy Hagar. Certo, le vocals non convincono appieno. Ma anche qui si avverte uno sforzo di fornire una prestazione strumentale degna dell’originale con risultati un pochino più soddisfacenti.

“Why can’t be this love” (Gravity Pharm): una delle più fedeli cover presenti in tutto il disco. Le vocals sono ben impostate e l’arrangiamento rispecchia  fedelmente l’originale brano contenuto nel primo disco dei Van Halen con alla voce Hagar.

“I can’t drive 55” (Shane “The Impaler” Volk): non mi ha convinto molto questa cover. Le vocals soprattutto non mi hanno colpito positivamente. Il giudizio finale è sospeso.

“Right Now” (5150) : sembra che il disco si riprenda quando sta per volgere al termine. Il pezzo viene ripresentato da una cover band e questo assicura già di per se sul risultato del lavoro qui svolto. In effetti il brano è eseguito in maniera fedele senza pecche ma neanche senza stupire l’ascoltatore.

“There’s only one way to rock” (Steve Whiteman): anche qui l’esecuzione è dignitosa, cercando di stuzzicare l’orecchio dell’ascoltatore. Il risultato è un lavoro in sede strumentale abbastanza fedele a quello svolto a suo tempo da Hagar.   

Ora, la domanda che mi viene spontanea pormi è: ma che operazione discografica è questa? Le song dei Van Halen scelte sono troppo poche (sei in tutto) e neanche rappresentative dell’importanza della band in questione e il resto è tratto dalla discografia solista dei due singers avvicendatisi nella lunga carriera del combo statunitense (con risultati non sempre soddisfacenti). Troppo poco e quel poco offerto all’ascoltatore lascia molto a desiderare. L’acquisto è sconsigliato.

Tracklist:

1.Panama (Feat. Jimmy Crespo, Richard Kendrick)
2.Shy Boy (Feat. George Lynch, Tony Harnell, Jason Mcmaster)
3.Yankee Rose (Feat. Enuff Znuff)
4.Ain’t Talking Bout Love (Feat. Jet Black Joy)
5.Tobacco Road (Feat. Corey Craven)
6.Take Your Whiskey Home (Feat. American Dog)
7.Mas Tequila (Feat. Full Tilt)
8.Why Can’t This Be Love (Feat. Gravity Pharm)
9.I Can’t Drive 55 (Feat. Shane ‘The Impaler’ Volk)
10.When Its Love (Feat. Richard Kendrick)
11.Right Now (Feat. 5150)
12.There’s Only One Way To Rock (Feat. Steve Whiteman)

 

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