Recensione: Trident Wolf Eclipse
I Watain non li capirò mai.
Dopo aver lasciato intravedere uno spiraglio di coraggio nel precedente “The Wld Hunt”, platter forse per molti aspetti discutibile ma a cui andava riconosciuto almeno il merito di saper osare, la formazione svedese fa dietro front e pubblica “Trident Wolf Eclipse”, nuovo disco che interrompe l’interessante parentesi intrapresa con il precedente capitolo discografico e che preferisce buttarsi a colpo sicuro verso sonorità più classiche e decisamente ‘vecchia scuola’.
Si torna indietro come già detto, ripescando appieno le prime muse ispiratrici del Metallo Nero, per un risultato che ricorda per certi versi i Watain degli esordi, quelli più ispirati del mai dimenticato “Casus Luciferi”, sebbene con un piglio ancora più vecchio stile (a più riprese mi sono venuti alla mente i primi Bathory) e maggiormente legato ai Dissection che furono, con la band di Jon Nodtveidt citata a più riprese tra un passaggio e l’altro sparso tra i vari pezzi che compongono il disco.
Partendo dall’energica ‘Nuclear Alchemy’, pezzo dove appare chiara la vena maggiormente ancorata al passato del metal primordiale, si nota immediatamente l’ottima produzione del disco: la definizione ci sta tutta, come da tradizione Watain (con i tempi della cacofonia di “Rabid Death Curse” sempre più lontani), senza per fortuna non eccedere nell’effetto di plastica che si a tratti si respirava in platter passati quali “Sworn to the Dark” e a tratti pure nel precedente “The Wild Hunt”. I riff del brano di apertura sono di chiara matrice Bathory, con un accento ancora più aggressivo conferito appunto dall’ottima produzione, ma nonostante un inizio così ‘anziano’, inusuale ed energico con la successiva ‘Sacred Damnation’ la band svedese affonda gli artigli nel più canonico Black Metal svedese, con echi dei Dissection pesanti come da tradizione e certe atmosfere che per certi versi ricordano i tempi migliori della band.
I brani presenti su “Trident Wolf Eclipse” non passeranno certo alla storia come i migliori mai scritti dalla band questo è certo, ma in alcuni casi riescono comunque a lasciare il segno. Ci sono molti brani che paiono scritti con lo stampino del black metaller, senza eccessivi sussulti, quali la già citata ‘Sacred Damnation‘ oppure ‘Furor Diabolicus’ dove, nonostante un risultato finale sicuramente apprezzabile, l’eco dei Dissection si rivela fin troppo evidente (…forse una cosa voluta? In alcuni casi pare quasi di ascoltare i Dissection che incrociano certe cose degli Arckanum, dando una strana impressione) rovinando così l’effetto finale al cospetto di un orecchio più ‘navigato’ e maggiormente ‘nutrito’ di metal estremo. Nonostante tutto però, il disco si rivela un platter ben più che piacevole dove, sebbene come già accennato non si rivoluzionerà in alcun modo la storia dell’estremo più nero, l’intento appare quello di intrattenere l’ascoltatore con una ricetta ben ascoltabile e ben costruita: nel mentre vi sono episodi di eccellente fattura quali ‘Teufelsreich’ (con quel suo intro a metà tra i Dissection e i Mayhem dei tempi d’oro) oppure ‘A Throne Below’ e ‘Ultra (Pandemoniac)’, dove le atmosfere divengono realmente sinistre ed infernali.
Nonostantente i due ottimi capitoli finali però, dove la ricerca sonora infernale dei Watain appare finalmente maggiormente slanciata e sperimentale (‘Towards the Sanctuary’ e ‘The Fire of Power’), alla fine di tutto l’impressione generale che se ne ricava è che sul tutto aleggi un’aura di ‘viaggiare sicuri’…un qualcosa che, nonostante l’ottima fruibilità del prodotto finale, conferisce la sensazione che i Watain siano voluti andare sul sicuro, forse troppo spediti e con una dose forse troppo abbondante di mestiere: certo che quello di “Trident Wolf Eclipse” è mestiere fatto bene, ma pur sempre di mestiere si tratta. Probabile che le critiche pesantissime ricevute con il disco precedente abbiano convinto gli svedesi a non proseguire lungo strade troppo azzardate e quindi cercare il facile consenso lungo sentieri meglio conosciuti e più remunerativi: un feeling accentuato ad esempio dal fatto che le melodie ‘nere’ ci sono e colpiscono, ma non abbastanza, oppure si potrebbe anche considerare l’aspetto puramente produttivo dove gli arrangiamenti curatissimi in pura scuola Watain ci sono, ma dopo numerosi ascolti danno un’idea troppo studiata, calcolata. Inoltre, a tratti vi è un eccessivo ‘distacco’ (ma non saprei realmente come definirlo, da qui le virgolette) tra i momenti più eterei e dilatati e quelli maggiormente più aggressivi ed old school, generando una strana sensazione di voler provare a tenere i piedi in due scarpe non esattamente della stessa misura, ma vi sarebbe anche da dire che quest’ultimo è un sospetto comunque leggero e forse, troppo azzardato.
Insomma, i Watain di oggi sono una macchina ben oliata che svolge egregiamente il proprio compito: certo è che dato il disco precedente, mi sorge nella mente qualche dubbio circa la sincerità del tutto, ma questo si potrà capirlo appieno solo con il successivo capitolo della formazione svedese ( – …eh bravo lo scemo! E se poi sul prossimo riprenderanno la falsariga di “The Wild Hunt” ti ritroverai bello che spiazzato! – Nda ). Per ora promossi, nonostante qualche ‘serpentino’ dubbio strisci comunque in sottofondo: gli occultisti svedesi sono a conti fatti dei bravi furbacchioni, nulla da eccepire.