Recensione: Trinity

Di Fabio Vellata - 16 Ottobre 2023 - 8:30
Trinity
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2023
Nazione:
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83

Il mistero grandioso di un artista con una clessidra appesa al collo che, nonostante tutto, non si abbatte e continua imperterrito a scrivere musica eccellente, producendo dischi d’assoluta qualità.
Non fosse altro che per questo, a Ronnie Atkins verrebbe da tributare onore e rispetto a prescindere.
Il fatto di non essersi mai arreso e demoralizzato di fronte a qualcosa di troppo difficile da digerire per chiunque, lo rende, con tutta probabilità l’emblema massimo del “metallaro”. Di un uomo vero, che anche di fronte a forze soverchianti butta nella mischia il meglio di se e va avanti, “lancia in resta”, verso il proprio destino. Senza mollare di un millimetro.
Fa un effetto totalizzante ascoltare il nuovo album “Trinity” alla luce di questi pensieri. Sentire Atkins digrignare le strofe di alcune canzoni con il piglio definitivo di chi, a dispetto di tutto, non hai mai perso smalto e grinta, veicola una potente dose d’adrenalina. E moltiplica il fascino di un album che, pur senza tutto il potente sfondo generato dal “vissuto” di chi lo ha scritto, sarebbe comunque risultato molto bello e riuscito.
Del resto, come sempre. Come è stato sin dal primo dei cd di questa “Trinità”, con cui Ronnie Atkins ha esordito da solista.

Trinity”, quasi emblematicamente, è una specie di riassunto di quanto realizzato in carriera dal ruvido singer danese. Una sintesi tra i primi due album “One Shot” (2021) e “Make it Count” (2022), ma pure un lungo sguardo verso i Pretty Maids. Con tutte le caratteristiche che ne hanno reso vincente la formula.
Parti abrasive con chitarre rombanti e sgommate epiche, heavy solido e granitico. Mescolato a grandi melodie sconfinanti nell’AOR che invocano sensazioni solari e cariche di vitalità.
Molto da ascoltare e da apprezzare, condotto da una serie di canzoni che hanno un aspetto omogeneo nei valori qualitativi pur presentando una corposa varietà di temi e melodie.

Emblematica la vigorosa title track, piazzata proprio in apertura a descrivere al meglio cosa sarà il disco. Una canzone solida e metallizzata con testo toccante, dai significati profondi e carichi di suggestioni di chi, pur vivendo nel presente, è alla ricerca di un significato che trascende il quotidiano. C’è molto di Atkins lì dentro: un travaglio interiore palpabile, una ricerca continua di un senso, del calore, dell’affetto che sono il fine ultimo di ogni esistenza.
Con “Ode to a Madman” scivoliamo dritti nelle braccia dei Pretty Maids: una canzone che avrebbe potuto arrivare da “Kingmaker” ed è l’ennesima gioia per chi ama l’heavy melodico tipico della band danese.
Medesima descrizione per “Paper Tiger“, un mid tempo straordinariamente bello che catapulta invece verso gli inizi dei PM, accarezzando lo stile ricco di cori ed atmosfere ottantiane di “Sin Decade”. Personalmente, uno dei momenti più belli del cd.
Malinconia e profondo romanticismo emergono da “Soul Divine”, traccia che qualcuno ha già definito una delle più belle scritte da Atkins in tutta la sua carriera. Non facciamo fatica a capire il perché: difficile non lasciarsene suggestionare, apprezzandone lo stile elegante nel suscitare emozioni.

Una intro strumentale è preludio di uno dei momenti più duri del disco. “Godless” è un pezzo spigoloso, ancora una volta vicino agli ultimi Maids, subito smorzato dalla scintillante (non a caso) “Shine”. Il dualismo tra asperità metallose e grandezza melodica è la costante che segue l’intera carriera del frontman nordico. Un ritornello come questo, ha ad ogni modo il potere di scrivere l’ennesima grande pagina della sua carriera.
Ancora più melodia per “If you can dream it“. Sembra d’esser tornati ai tempi di “Spooked” con una delle canzoni più positive e spensierate che Atkins abbia messo assieme negli ultimi anni. Un vero inno alla forza di volontà…

Il finale di “Trinity” assume invece sfumature leggermente più cupe, anche se sempre meritevoli di volumi d’ascolto massimi. “Sister Sinister” e “Raining Fire” hanno toni epici e drammatici. Potenti. Armonie corazzate che si sommano alla voce abrasiva di Atkins intavolando atmosfere che, soprattutto nel caso di “Raining Fire” hanno risvolti assolutamente attuali nella realtà cui assistiamo inermi ogni giorno.
Gioielli conclusivi, la corale ed emozionante “The Unwanted” assieme alla lenta “What If“, chiudono un album con note ed atmosfere che, non ci vergogniamo a dirlo, rendono un po’ umidi gli occhi.
Il suggello ad un disco da ascoltare e riascoltare più volte, scoprendone sfumature e dettagli che riverberano e riassumono un’intera carriera.
Che è stata, ed è ancora, quella di un grandissimo artista come Ronnie Atkins.

A chiusura di una recensione inevitabilmente lunga ed articolata non c’è molto da aggiungere.
C’è solo da celebrare con l’ennesimo applauso la bravura di un musicista e cantante per il quale ogni disco nuovo potrebbe essere anche quello del definitivo commiato.
Non ci saremmo mai perdonati il non aver dato il giusto tributo anche a “Trinity“, un album che ci auguriamo, come accaduto per i due capitoli precedenti, possa essere seguito da molti altri…

 

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