Recensione: Trinkh Met Miar
Da tempi immemori nello Stivale moltissime popolazioni si incrociarono agli indigeni. Una di queste erano i cimbri, un popolo germanico-scandinavo il cui retaggio culturale sopravvive ancora oggi. Fra le zone abitate da loro figurano zone del Trentino, del veronese, dell’Altopiano del Cansiglio e, soprattutto, dell’Altopiano di Asiago. Ed è da questi ultimi luoghi – o non lontanissimo da essi- che proviene chi si ispira, almeno in parte, al ricordo di quelle antiche genti. Stiamo parlando dei Kanseil, dei Brünndl, dei Vallorch e dei presenti Balt Hüttar (Guardiani del Bosco). Formati nel 2011 da un’intuizione del polistrumentista Matteo Pivotto, la band originaria dell’Altopiano di Asiago (VI) propone un amalgama particolare di influenze musicali e idiomi da loro definito “Cimbrian Folk Metal”.
Dopo il primo EP intitolato “Tzimbar Tantze” (2014) la band vicentina ha rilasciato quest’anno “Trinkh Met Miar”, il loro primo full-lenght, disco consistente di nove inediti più quattro brani tratti dal precedente EP. La scelta del gruppo di accostare liriche in cimbro, italiano, inglese e veneto (fugacissime incursioni) mira a portare il locale nell’internazionale, ma con un loro stile. Già a partire dal significato di “Trinkh Met Miar” – che in cimbro significa “Bevi con me” – viene anticipato l’aspetto prettamente goliardico delle loro canzoni ed un entusiasta invito alla danza. L’artwork, invece, pare anticipare – oltre il cuore pagano – l’altra faccia della medaglia, quella nostalgica ed a volte cupa, alla “bevi con me per dimenticare”.
Musicalmente le tredici tracce sono una sorta di melting-pot in cui convivono – in proporzione variabile – il mondo squisitamente germanico, quello celtico (specie nell’istinto punk alla Dropkick Murphys e Fiddler’s Green) e quello nordeuropeo (affine ai Korpiklaani ed agli Ensiferum). Ciò si traduce in canzoni nel loro genere gradevoli all’ascolto, che si stampano velocemente nella mente, eppure dotate di una loro complessità. Ci sono delle tracce che colpiscono particolarmente per esecuzione, ispirazione, convinzione e maggiore potenza.
Tra i brani più solari figurano “Another Drinking Song” e “Tzimbar Baip”. Se il primo convince per una vivacità contagiosa, la seconda coinvolge per un’epica fusione cimbro-celtica trainata dalla bella e luminosa voce di Ilaria Vellar. Tra le canzoni più malinconiche e tristi (concentrate circa nella seconda metà del disco) sono da menzionare “Living Fast”, “Maine liibe Perg” e “Khriighenacht”. Il primo brano travolge per un riuscito equilibrio tra l’istintività esecutiva ed una complessità a tratti prog, mentre “Maine liibe Perg” ha un altro approccio: la traccia affascina per la profonda nostalgia a tratti struggente ed a tratti serena e giocosa. Infine, “Khriighenacht” colpisce per essere un drammatico crescendo a sfondo bellico culminato dall’energico ed espressivo dinamismo tra le voci di Jonathan Pablo Berretta e di Ilaria.
Con “Trinkh Met Miar” i Balt Hüttar ci offrono una personale lettura del complesso sub-strato culturale locale, in bilico tra arcaico passato e moderno presente. Alcune delle canzoni (fra cui “Liid Dar Tzimbarn”) sono tra l’altro pezzi tradizionali cimbri riproposti dai vicentini. L’alternanza tra i vari idiomi non pare per nulla forzato e crea sia un tratto distintivo del gruppo, sia dinamicità nei brani. Un vago sentore di eccessiva canonicità rintracciabile a volte qua e là può essere un po’ il limite del disco, altrimenti vi è una certa personalità di fondo, incorniciata da una buona produzione e da un sound roccioso. Band con un potenziale margine di miglioramento. Promettenti.
Elisa “SoulMysteries”Tonini