Recensione: Trips
“Una delle più grandi capacità della musica è quella di riuscire a viaggiare tra lo spazio e il tempo.”
(M. Ward)
E’ proprio vero che quando una canzone o un album sono scritti bene, a prescindere dal genere, viaggiano alla velocità della luce per rimanere immortali negli anni, nei decenni e nelle vite delle persone. Attimi impalpabili che consecutivamente creano suoni, come volontà d’espressione, volti al solo scopo di regalare emozioni; l’arte di creare da corde, pelli e casse melodie che accompagnano alcuni degli attimi più importanti nelle ipotetiche colonne sonore, che ognuno di noi abbraccia nei momenti più importanti del proprio trascorrere. I Long Distance Calling magari non saranno mai il “gruppo preferito” di nessuno se non dei membri stessi, magari non verranno ricordati mai tra dieci anni o più ma oggi, nel 2016, “Trips” risulta essere quell’apice compositivo a cui molti aspirano per tutta la carriera. Partiti come band completamente strumentale con un prog di stampo moderno ed avveneristico, col passare degli anni hanno deciso di inserire al loro interno un componente aggiuntivo, figurante in ogni singola uscita come “guest” in modo da dare voce alle loro melodie; oggi quell’attore non protagonista che compare all’interno di questa nuova release prende il nome di Petter Carlsen, e diviene l’arma bianca in più che amplifica esponenzialmente lo spettro compositivo e percettivo di ogni singolo brano creato dai nostri tedeschi. Ma lasciamolo li, di lui parleremo tra poco.
Probabilmente agli occhi di molti neofiti rispetto al precedente “The Flood Inside” la band non ha cambiato più di tanto il suo approccio compositivo, rimanendo fedele ad una linea tracciata in gran parte in precedenza, ma esamindandolo con attenzione gli ha consentito di smussare qualche angolo, in modo di percorrere una via leggermente più melodica ed “accessibile” portando “Trips” ad esplorare mondi precedentemente solo immaginati. Come siamo soliti pensare combinare il “sound classico” di ogni singolo gruppo contrastandolo con qualche riflesso sperimentale è un’ardua scalata verso la meta, ma se combinate intelligenza e caparbietà il tutto non risulta così ostico e difficoltoso; i Long Distance Calling dalla loro hanno l’esperienza necessaria per potersi permettere qualche fuori programma avantguardistico e questo capitolo della loro saga discografica ne è la riprova.
Prima di parlare della musica torno un attimo sul cantante, che a differenza del passato e ancora di più dei pirmi dischi, diventa unico e prende il nome di Petter Carlsen; questo norvegese di 36 anni ha tutt’ora una carriera in ascesa nel mondo del pop melodico, ha avuto in passato diverse collaborazioni con Anthema, Anneke Van Griesbergen e oggi presta le vocals a questo magnifico album. Cosa porta in dono rispettosi differenti “guests” e a Martin Fischer su “The Flood Inside”? Tutto, nulla e moltissimo con la costante antitesi della concezione musicale che sta alla base dei nostri oggigiorno; non avranno certamente nessuna certezza nel futuro per le vocals, non avranno mai la strada in discesa e la conferma su cosa e chi affidarsi ma riusciranno sempre a guardare avanti rimanendo fedeli al proprio essere pur vedendo molteplici anime ad interpretare i loro sogni fatti in musica. Segno questo che vuol dire che si è in grado di potersi adattare e lasciar risplendere ognuno al meglio a prescindere dalle note proposte, merito dei musicisti ovviamente.
Se la breve strumentale ‘Getaway’ ci conduce verso lidi prettamente AOR lasciando leggermente sorpresi, già attraverso ‘Reconnect’ la situazione diventa più ardua e groovy, attraverso meccanismi concentrici e vorticosi che a dispetto della facile fruizione risultano complessi ed articolati. Questa e il singolo monumentale ‘Lines’ sono le due tracce più energetiche, dove la band esplora sentieri al limite del pop con una forte vena progressiva che rimane piantata in testa come un chiodo da 20 cm: impossibile staccarsi e non mandare in loop continuo volta dopo volta. Troviamo successivvamente due brani lenti da lacrimoni, che pur risultando al di fuori degli standard della band, diventano indispensabili alla riuscita finale dell’intera opera; queste due gemme prendono il nome di ‘Rewind’ e ‘Plans’ e senza molto aggiungere sono ottime, semplici, accattivanti e da fuoriclasse. Al loro intenro v’è il manuale del progster moderno con romanticismo applicato. Andando avanti ed escludendo la breve ‘Presence’, che può essere vista come piccolo break lungo l’ascolto, rimangono indietro ‘Trauma’, ‘Momentum’ e ‘Flux’, tre strumentali da pelle d’oca, dove la suite conclusiva da dodici minuti ci porta dentro territori ricolmi di Pink Floyd alternati ai vecchi King Crimson con una rilettura del contemporaneo in chiave Porcupine Tree accentuata. Cosa voglio dire? Semplicemente che tutto ciò che il vecchio prog ci ha dato in dono, è stato rivisitato alterato e decodificato per risaltare sotto una veste più moderna e anticonvenzionale. Esistono due scuole di pensiero, che come la religione sono singole ed immutabili, ma per i masturbatori del prog, coloro che vedono nel piru piru metafisico il tutto, troveranno vita dura in queste note, riscontrando solo asettico ermentismo sonoro a differenza degli altri che guardano sempre e comunque di più alla sostanza combinata all’innovazione. Guardano avanti.
I Long Distance Calling sono insieme ad altri gruppi quali Votum, Leprous, Ihsahn e Loch Vostok il futuro del progressive, senza dare addito a “teatri benpensanti” e “pallide comunioni” che nuocciono gravemente alla salute. Guardare avanti da sempre, questo è il motto del progressive e questa band lo fa molto bene e senza giri di parole, questo è il futuro; per chi vuole costantemente guardare nel passato quella è la porta d’uscita. Astenersi retroattivi benpensanti perché dare meno è dare di più con maggiore enfasi.
La vita può essere capita solo all’indietro ma va vissuta in avanti.
(Soren Kierkegaard)