Recensione: Trisula
Ci sono momenti e luoghi chiusi nella nostra mente a cui non sempre vogliamo accedere. Non tutti i corridoi conducono alla luce e non tutte le porte desiderano essere aperte.
Con il loro terzo full lenght, dal titolo ‘Trisula’, i Lord Brain Shiva, terzetto veronese di basso/voce, chitarra e batteria, ci conducono in luoghi dove la mente è completamente dissociata dal paradigma classico di composizione occidentale.
Fondati nel 2012 da Davide Bazzani e Giulio Spiazzi e potenziati nella sezione ritmica con l’arrivo di Manuel Marini alla batteria, si sono autodefiniti “Himalayan Sludge”. A mio avviso il disco che questo gruppo ci propone è un misto di generi che vengono esplorati in una chiave innovativa: la traccia ‘Shadow’s Ghost Tree’ ne è un esempio, sottolineando elementi dark wave che incalzano l’ascoltatore.
L’importante è, ovviamente, anche il passato, la propria storia: quest’ultimo lavoro, scritto tra il 2020 e il 2023, è il proseguo dei lavori precedenti: ‘Lord Brain Shiva’ (2013) e ‘Dakshinamurti’ (2016). Però, seppure le sonorità sono le medesime, ‘Trisula’ risulta un disco più metodico, quasi ossessivo nel suo reiterare brani dalla struttura dispari. Non mancano comunque gli intermezzi armonici, e l’intersezione di sonorità dal sapore birmano.
L’album è autoprodotto, ma questo non ne inficia la qualità. Si sente che questi ragazzi ci tengono a presentare un buon lavoro al loro pubblico, non a caso è stata scelta come data di uscita per il terzo lavoro il solstizio d’inverno. È, come è noto, il giorno più corto dell’anno: così come tutte le cose dormono nella notte più lunga, è il momento migliore per concentrarsi sull’ascolto di ciò che è fuori e dentro il nostro io. Il concetto di “ascolto” viene infatti ripercorso per l’intero album. Dal mio punto di vista la band ci sprona ad aprirci ad un ascolto più profondo, ci chiede di essere disposti ad aprire la mente ad una comunicazione onirica diretta e semplice, destinata proprio a chi desidera porsi all’ascolto di questa melodia surreale.
Nota di merito particolare va al linguaggio scelto per i testi, che sono in inglese pidgin, proprio a sottolineare un ponte, anche linguistico, tra due culture diverse: l’occidentale e l’orientale.
Più pesante rispetto ai lavori precedenti, presenta incalzanti, ossessivi e ripetitivi riff di chitarra ed una struttura portante della sezione ritmica che non sono mai scontati. Se normalmente l’ossessivo ripetere di una struttura così triangolare potrebbe risultare noioso o pesante, i Lord Brain Shiva corrono il rischio e scelgono volutamente di incasellarci in questo schema dai tratti ridondanti ma ipnotici.
Sublimamente (e volutamente) grezzo in alcuni punti e quasi totalmente strumentale, quest’album mi ricorda qualcosa a cui non riesco a dare un nome, la melodia di sottofondo di una visione onirica che, riaperti gli occhi, è già sparita.
Potenti sonorità orientali (‘Varuna’, ‘Klesas’, ‘Stupas’, ‘Karma Lete’) e il lisergico ma duro pezzo in chiusura cantato inaspettatamente in tedesco (‘Improzeit’) si alternano, si mescolano e si rincorrono senza però soffocarsi.
Una porta chiusa che chiede di essere aperta, un universo da scoprire nella nostra mente, una meditazione a tratti oscura e spaventosa.
Consiglio un ascolto a luci soffuse, una introspezione che, attenti, potrebbe portarvi in luoghi sconosciuti.
*si definisce Pidgin il mix linguistico derivato da dal mix di due lingue, solitamente utilizzato come linguaggio tra due soggetti in comunicazione che non conoscono uno l’idioma dell’altro.