Recensione: True Occult Astronomy Part II
C’era una volta la Danimarca. Anzi c’è tuttora, per nostra fortuna.
Un Paese bellissimo, pieno di cultura, apertura mentale (specialmente in ambito lavorativo) e tante altre cose belle.
Un dì, precisamente nel 2006, quattro ragazzi di ignota natura ed altrettanto ignoti ruoli (nessuno sa cosa suonino, nessuna informazione, nulla di nulla) decisero di fondare i Goatfago, un act di cui io, tale Giuseppe Casafina, ho sempre ignorato l’esistenza fino a quel 21 agosto 2016, giornata di sguazzi e libertà presso la 22a edizione dell’Agglutination Festival: acquistai tale “True Occult Astronomy Part II” attratto dalla copertina e su consiglio di un carissimo amico, sempre fidandoci della copertina…da allora, quel disco è rimasto a prender polvere sino ad un giorno ormai non più precisato di due mesi fa, in cui misi il disco nel lettore in quanto mi resi conto che quel dischetto con un facocero in copertina fino ad allora non l’avevo ancora ascoltato…quindi scarto il tutto, inserisco nel lettore e quasi immediatamente nella mia mente si formularono una serie di dubbi amletici, occulti quasi al livello dell’astronomia citata da questo disco, circa il senso di fare certe cose in un certo modo.
Chiariamoci: stiamo parlando di un suono che non era un suono, era un peto.
Chiariamoci ulteriormente: adoro Ildjarn e tutta la roba raw black metal affine di acts quali Odelegger, Aigro Mucifelam e chissà cos’altro, tutti dischi che se in redazione scoprissero la mia favorevole positività verso di essi, non esiterebbero a cacciarmi seduta stante: però ammetto che sono tuttora sufficientemente non-rimbambito (detto alla pugliese) da capire quando la misantropia sonora diviene solo una scusa e pertanto te, come ascoltatore e prima ancora come appassionato, ti senti sonicamente preso per il fondoschiena.
Chiariamoci per un ulteriore approfondimento aggiuntivo: adoro le produzioni concettualmente grezze, le sonorità volutamente per nulla rifinite, ma anche in quest’ambito vi è sempre un limite oltre il quale non puoi sorpassare, altrimenti il prossimo te lo fai nemico.
Bene, dopo tutta questa sfilza di forse inutili chiarimenti, passiamo al disco.
Ma forse è meglio parlare del capretto che oggi a Pasqua non mi sono magnato, no? Oppure della colomba rinsecchit…ah no, devo recensire.
In fondo sono stato io a volerlo fare, però solo ora allo stato attuale mi rendo conto che forse sarebbe stato meglio non farlo: dietro tutto questo però, dietro tonnellate di basica ironia spicciola ed in apparenza assai poco professionale, vi è sempre quell’animo altruista che ti spinge a voler scrivere qualcosa di un disco che semplicemente non dovrebbe esistere, allo scopo di voler evitare al prossimo lo scivolone che tu ormai hai inevitabilmente commesso.
Quindi, cosa dovrei dire? …aspettate, ci devo pensare…trovato!
Facciamo che vi parlo del capretto che non mi sono mangiat…ah già, no l’ho scritto sopra. E poi io rispetto vegetariani e vegani, quindi mi sembra anche giusto non farlo. Quindi, stavamo parlando di…ah già, questi quattro danesi dai lunghissimi nomi improponibili in stile Blasphemy. TROVATO! Bene, sapete qual è la differenza tra i Blasphemy ed i Goatfago? Che i primi hanno fatto la storia, suonando in un modo talmente rozzo e cacofonico che o li amavi o li odiavi e, soprattutto, Fernet Branca!
No vabbè dai, scherzi a parte (devo essere ironico, altrimenti rischio di incazzarmi con me stesso), soprattutto non si mascheravano dietro produzioni improponibili: se suonavano osceni è perché amavano proporre distorsioni oscene, ritmi di batteria imprecisi ma sempre assassini, senza dimenticare la voce catacombale da tamarro canadese infatuato per gli Slayer! Ma questa non è una recensione dei Blasphemy, bensì dei Goatfago e questi ultimi semplicemente non puoi amarli, li odi e basta. Li odi in primis perché hanno sbagliato genere: se costoro si fossero fatti passare per un act di musica noise sperimentale, sicuramente a quest’ora avrei detto “Vabbè, il noise è quello, lasciamo perdere” ( – Perchè appunto il noise lo ascolto anch’io e ne conosco le basi – nda ), ma se invece di ciò ti etichetti come gruppo black metal, allora è inutile che blateri di occultismo e mi schiaffi facoceri un po’ ovunque a caso nell’artwork minimalissimo che compone il disco, perché in quel caso mi sa che senza rendendotene conto, nella corsa all’eccesso a tutti i costi su tutti i fronti, stai sbagliando qualcosa.
Stai sbagliando qualcosa perché stai esagerando su tutta la linea estremizzando troppo i contorni, e se ci tieni così tanto ad estremizzare la tua arte o presunta tale, vuol dire che sotto sotto, alla base, hai qualcosa di molto serio da nascondere. Il caso vuole infatti che siamo al cospetto di nove nenie indistinguibili, ultradistorte e senza alcun filo logico conduttore, senza ritmo, melodia, feeling: la voce è un recitato ipersaturo senza definizione, la “batteria” è una (ridicola) drummachine nello stile dei vecchi videogames che ripete sempre lo stesso ritmo/pattern a velocità differenti, le chitarre…no forse non ci sono nemmeno le chitarre, ma solo un rumoraccio iperdistorto che persino Merzbow (pioniere nipponico della musica noise) direbbe che costoro ti stanno unicamente prendendo per i fondelli…una saturazione totale e cacofonica che rende semplicemente impossibile anche solo il cercare di capirci qualcosa.
No, non ci provate, è una battaglia persa.
Il grezzume è bello quando è sensato: ma quando si eccede in qualcosa spesso ciò avviene proprio perché si vuole piazzare una maschera su quel qualcosa, allo scopo magari di nascondere eventuali mancanze tecniche o chissà cos’altro…appunto, i dubbi amletici che ho citato in apertura nascono per siffatta ragione. Perché un gruppo avrebbe dovuto, nell’ormai lontano anno 2012, proporre della roba ‘registrata’ (…da fonico rabbrividisco al sol pensare di accostare tale termine a questa roba) in questa maniera? Ok il volersi distaccare dal business e il risultare per pochi, ma non credete che ci sia un limite oltre il cui ci si rende solo ridicoli? Teoricamente potrei anche ipotizzare che l’indistinguibile muro di rumore che è in pratica il principale impianto musicale del disco non siano chitarre, bensì anche solo una registrazione del traffico metropolitano danese o magari una sessione di accoppiamento di uccelli distorte all’eccesso tramite pc o in studio (perché appunto si potrebbe trattare di qualsiasi cosa, dato che non si capisce una mazza in tutta franchezza), unendo il tutto ad una batteria elettronica minimalissima e saturata, per poi infine blaterare delle cose a caso in un microfono…perché poi tanto distorcendole oltre l’eccesso nessuno capirà mai quello che davvero stavate facendo!
Magari mi sbaglio, ma se a me come ascoltatore non mi viene concesso il basilare diritto di capire quel che ascolto e/o acquisto, allora posso solo supporre: e se devo supporre, allora posso dare ipotesi praticamente a qualsiasi opzione, non credete anche voi?
Mi sono dilungato anche troppo però concedetemi almeno un ultimo, simpatico appunto: perché mai debuttare con un disco il cui titolo cita “Part II”, se poi la prima parte la rilascerai in seguito? Mi dispiace, ma un improbabile Mike Patton in salsa black metal in questi proprio non ce lo vedo, solo una colossale presa in giro.
Vediamola così: mi sono involontariamente immolato per il prossimo, spero a buon rendere…