Recensione: Try Before Die
Un bel pezzo di carne rosso sangue, in copertina, non poteva rappresentare un più efficace biglietto da visita per i polacchi Incarnated. Fautori, cioè, di un death metal grondante liquami da macelleria e brandelli di tessuti muscolari.
Eseguito come da miglior scuola dell’old school poiché i Nostri, è bene rammentarlo, sono dei veterani nel campo essendo nati nel lontano 1992 e avendo dato alle stampe una discreta quantità di materiale; fra cui spiccano tre full-length di cui l’ultimo in ordine di tempo è questo “Try Before Die”, appena uscito per la Selfmadegod Records.
Pur essendo formalmente solo un trio, gli Incarnated riescono a imbastire un muraglione di suono pazzesco, tirato su dal mostruoso lavoro delle due chitarre, il cui suono è fantastico nel ribadire quale sia la giusta via per far eruttare più marciume possibile dai tormentati speakers. Un suono talmente decomposto e pregno di liquido purulento che rende quasi impossibile l’identificazione dei singoli riff, immersi nella pozza di repellente putridume che sgorga da ogni brano del platter.
Del resto anche Pierscien ci mette molto del suo, con la sua ugola corrosa, a materializzare l’incredibile sentore di decomposizione emanato da brani scellerati quali per esempio “My Brother Cain” o “Bloody Hands”. Growling gargarismico ma anche inhale suinico, insomma, per farla breve sulla capacità del vocalist di esagerare durante la sua discesa negli inferi. Se poi, a tutto ciò, ci si aggiunge il drumming slegato e belluino di Bartosh, capace di sfondare senza pietà la barriera dei blast-beats oppure di trascinare biechi quattro quarti a mo’ di arti amputati, il quadro che riassume lo stile del terzetto di Bia?ystok non presenta più né ombre né sfocature. Uno stile a modo suo perfetto nella riproduzione, aggiornata al millennio corrente, di quel sound costruito sulla matrice primigenia che ha reso storici ensemble quali Entombed e Dismember.
Presumibilmente, però, tale precisione tipologica ha costretto Pierscien, Thomas e Bartosh a concentrarsi eccessivamente sulla resa complessiva di “Try Before Die”, portandoli a uniformare eccessivamente le varie song. La ricerca spasmodica del marchio di fabbrica da iterare nei trentadue minuti di durata del disco, per dirla tutta, ha reso praticamente indistinguibili le canzoni fra loro. Come la ricetta di un piatto gustosissimo che, purtroppo, rappresenta l’unica pietanza di un menù a nove portate. Anche a intestardirsi e a passare pertanto giorni e giorni roteando il lavoro fra “Zombieland” e “Madness”, per meglio dire, non si riescono a trovare quelle necessarie differenze tali da rendere possibile la memorizzazione di ogni singolo episodio.
Un vizio evidentemente non da poco, che è parzialmente sanato dalla ridetta bravura della band a focalizzare un sound dannatamente convincente. Preso nel suo insieme “Try Before Die” non dà adito ad alcuna critica: è una vera e propria secchiata di frattaglie in piena faccia! Sezionato a brandelli, al contrario, mostra tutti i limiti di un songwriting immobile nella ripetizione dello stesso identico cliché. Privo di quel minimo di variazione sul tema per poter sconfiggere definitivamente la noia.
Ottimo per smembrare l’apparato uditivo dei vicini di casa, ma nulla di più.
Daniele “dani66” D’Adamo
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