Recensione: Tsunami Sea

Di Paolo Fagioli D'Antona - 9 Marzo 2025 - 19:00
Tsunami Sea
Band: Spiritbox
Etichetta: Rise Records
Genere: Metalcore 
Anno: 2025
Nazione:
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90

Non c’è alcun dubbio sul fatto che gli Spiritbox si stiano rivelando, anno dopo anno, come una delle nuove formazioni più di successo nel panorama Metal mondiale odierno. Una escalation di popolarità, record battuti, award vinti (oltre a due nomination ai Grammy) e tour in tutto il mondo affianco a band come Korn, System Of A Down e Linkin Park (la prossima estate), per una formazione che a tre anni e mezzo di distanza dall’uscita del loro primo album in studio Eternal Blue, è sempre più al centro della travolgente ondata di band che sta dando nuova linfa e popolarità al metal negli ultimissimi anni; band come Sleep Token, Falling In Reverse, Lorna Shore e i canadesi Spiritbox, stanno trainando il genere stesso e con sé una nuova generazione di appassionati verso lidi di popolarità che il metal non vedeva da diversi anni, almeno per quanto riguarda il mercato americano e nord europeo. Dopo l’uscita dei due EP Rotoscope (2022) e The Fear Of Fear (2023), è finalmente giunto il momento per la band Canadese di Mike Stringer e Coutney LaPlante di rilasciare il loro fatidico e attesissimo secondo album Tsunami Sea, un disco che vede pesare sulle proprie spalle un fardello importante, costruito sul grandissimo successo dell’album di debutto che arrivò a piazzarsi addirittura in tredicesima posizione nella billboard 200 statunitense, un piazzamento che per un disco di debutto di una band metal fu un qualcosa che non si era visto da anni.

Tsunami Sea a partire dall’approccio visivo offre un contrasto immediato con il disco precedente Eternal Blue, adottando un’estetica minimale, puramente in bianco e nero, per una scelta visiva coerente che viene riportata sia nei videoclip fatti uscire fin ora a supporto dei singoli del disco (Soft Spine, Perfect Soul e No Loss, No Love), sia nell’artwork che nelle foto promozionali della band, tutto in linea con i temi riportati su questo nuovo platter. Il disco infatti, coerente con la sua visione stilistica in bianco e il nero, è un lavoro fatto di contrasti, sia a livello musicale che dal punto di vista concettuale, per un’analisi concettuale che scava fortemente nella psicologia umana e che dal punto di vista musicale offre quel bilanciamento tra parti metalcore aggressive, breakdown spaccaossa, ma allo stesso tempo è capace di costruirsi attorno un “wall of sound” etereo  e stratificato, costruito su un suono di chitarra riverberato ed avvolgente, con forti contaminazioni ispirate dalla musica pop, elettronica, con derivazioni synth, per un album che ancora di più del suo predecessore, scava  nel concetto di dualità in musica, regalandoci un disco ancora più ricercato di Eternal Blue, più sperimentale e con nuove soluzioni sonore che continuano ad entusiasmare.

Ma come accennavamo prima, Tsunami Sea è un disco che offre quel senso di dualità anche nelle liriche, spesso incentrate sul topic della salute mentale e la depressione, con un titolo che sceglie un fenomeno meteorologico e catastrofico come lo Tsunami, come metafora di una serie di stati emotivi; quella sensazione appunto, di essere travolti da un fenomeno così distruttivo ma di avere poi la possibilità di riemergere dall’altra parte una volta che le acque si sono ritirate, regalandoci proprio un ritratto delle svariate tipologie di sfumature della fragile salute mentale dell’uomo. Una forza che ti spinge nell’oblio per poi farti risalire, ed un senso di dualismo che si ricongiunge a tanti temi della vita di Courtney LaPlante (autrice dei testi), come per esempio, il suo rapporto conflittuale con l’isola in cui è cresciuta (Vancouver Island), un ambiente da un certo punto di vista soffocante, ma dall’altra, una dimensione che offre un senso di protezione (un vero e proprio “rifugio a due facce” per citare il titolo). Insomma un approccio contrastante questo che la vocalist degli Spiritbox esplora in particolare in un brano come A Haven With Two Faces, chiedendosi se, nonostante quel suo desiderio di evasione, l’isola possa ancora rappresentare un porto sicuro dove approdare per ricondursi alle sue radici, ai suoi ricordi, a quel mondo lasciato alle spalle che rimarrà sempre e comunque parte di lei – “ I hope you still have a hideaway for me… with roots you’ll never see flowing back to me”.

Fata Morgana apre il disco con un titolo che porta con se l’illusione di una serenità interiore come un miraggio in un deserto di disperazione. I riffing heavy e di stampo quasi sludge, si contrastano con la meravigliosa timbrica di Courtney nel ritornello, per poi subentrare in uno stacco arpeggiato,  accompagnato da dei vocalizzi della stessa LaPlante, per donare un senso molto mistico a questa sezione del pezzo, prima che dei sample atmosferici nella forma di un’onda che si infrange sugli scogli, ci fa uscire da questa sensazione di sogno in cui siamo avvolti, scaraventandoci nuovamente nel vivo del brano. Ci sono molti riferimenti e simbologie in questo disco, specialmente per quanto riguarda il concetto del mare, delle onde e di quel mondo sommerso che appare e riappare nelle liriche e nei suoni di sottofondo che l’album ci regala. Il breakdown e il finale sfumato di Fata Morgana sfocia nella successiva Black Rainbow, così come ogni brano nel disco sfuma nel successivo, esattamente come accadeva in The Fear Of Fear, dando a questo platter un “feel alla concept album”, nonostante esso sia più che altro un disco tematico.

Black Rainbow è uno dei pezzi più pesanti del lotto con uno scream viscerale da parte di Courtney e delle chitarre granitiche, distruttive e con dei riffing di stampo quasi Meshuggiano. Al contempo però, questo è anche il brano dove l’elettronica inizia a farsi viva in maniera preponderante nel platter, per un pezzo che ci riporta indietro ad un brano come Yellowjacket (dal precedente Eternal Blue), anche per l’uso dei forti effetti vocali adoperati spesso sul cantato di Courtney. Piccola curiosità, il titolo della canzone è ispirato al film Beyond The Black Rainbow del 2010.

La meravigliosa ed eterea Perfect Soul, scelta come secondo singolo dell’album ci mostra il lato più intimo e melodico degli Spiritbox, per un pezzo totalmente cantato in clean da Courtney dove il bassista Josh Gilbert armonizza con la stessa vocalist in maniera sublime, in un connubio di voci ed emozioni che sembrano travolgerci nell’oceano interiore offerto dalla musica e dal sound della band.

Un fattore importante nella riuscita di questo lavoro è la produzione, che ha un ruolo chiave nel farci godere di un sound pulito, cristallino, etereo, granitico quando serve, senza mai darci quella sensazione di “overproduction” che molti dischi del filone “metalcore moderno” hanno. Continuano i riferimenti al mare, la marea e al concetto di dualità e di due forze contrastanti  (“So obvious I can’t let go, carried in the ebb and flow”), mentre la voce di Courtney riesce ad emozionare nella sua meravigliosa vulnerabilità, per quella che è senza dubbio una delle migliori front-woman in ambito metal nel panorama odierno. E qui non stiamo parlando solamente di tecnica vocale, sia nello scream che nel pulito, ma anche nell’incredibile capacità di saper raccontare il suo mondo interiore attraverso una scrittura criptica, ma allo stesso tempo incredibilmente poetica e molto ricca a livello di vocabolario.

L’approccio chitarristico più djent fa capolino anche in questo lavoro, ed è un trademark della band, apparendo per esempio nella successiva Keep Sweet, dove i beat elettronici si coadiuvano con un’alternanza di potenza e melodia, con delle vocals di Courtney estremamente frizzanti e che strizzano l’occhio al mondo della musica pop. Keep Sweet  è ispirato ad un documentario di Netflix che affronta le controverse vicenda attorno alla Chiesa Fondamentalista di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni .

“YOU ALL DESERVE EACH OTHER” – è con questa frase urlata da Courtney che subentra lo schiacciasassi dal nome di Soft Spine, un brano metalcore dalla carica disarmante che è stato presentato come primo singolo del disco e che senz’altro diventerà un caposaldo delle prossime esibizioni live del gruppo.

Al contrario, la title-track riporta la melodia al centro dell’arca sonora degli Spiritbox, un’arca che si dipana attraverso una composizione che ricorda le atmosfere sulfuree di un brano come Eternal Blue o Secret Garden dal precedente platter, per un pezzo melodico ma supportato da delle chitarre heavy, granitiche e pulsanti di sottofondo, mentre Courtney continua a dipingere per noi liriche pregne di metafore e simbolismi (ancora una volta acquatici)- “through broken waves that leave us blind, if i’ll stay here you’ll wash away like a landslide, you bleed into every colour that my mind can concieve, you only love the ideation of me”- questo è un brano che parla del cosiddetto “self worth” (o autostima) e della sensazione di non essere abbastanza per qualcuno, o per gli standard che poniamo su noi stessi.

Il delicato arpeggio di A Haven With Two Faces (le cui liriche abbiamo già analizzato ad inizio recensione), potrebbe rappresentare il culmine e la massima espressione di quello che gli Spiritbox vogliono portare in musica in una dualità straordinariamente bilanciata. Un pezzo  questo che ci offre uno stacco prolungato che ci trasporta, attraverso le sue atmosfere cinematiche, in un’isola infestata dai ricordi di una vita, una visione dolceamara, per un disco, Tsunami Sea, che ha la forza di essere estremamente “visuale” come album, ancora di più del suo predecessore, anche grazie ai miglioramenti tecnici approntati ad una produzione affidata a Mike Stringer che è riuscito, negli ultimi anni, a crescere anche da quel punto di vista, riuscendo a portare in vita dettagli sonori mai fini a se stessi, ma sempre centrali nel far trasparire le emozioni di un disco che da quel punto di vista è strabordante.

Crystal Roses è forse il brano che più di tutti mostra la crescita degli Spiritbox e del loro amore per la musica pop ed elettronica che sfocia in maniera preponderante in un brano quasi privo di qualsiasi chitarra e riff (essa appare solamente nel ritornello che è tra i più particolari mai scritti dalla band), riuscendo tra beat elettronici e linee vocali pop, ad essere sempre ricercato, etereo, sognante ed elegante.

Come non citare poi il break elettronico dal retrogusto sinistro e dal vibe esoterico e tribale di No Loss, No Love– “In a bleached cavern of bones I reach my destination, an island of solace beneath a corpse’s feet, I can feel something sinister under the surface, I know an island that breathes is a body that eats”- uno dei nostri momenti preferiti dell’intero album, per una sezione con delle sonorità che rimandano alla musica trip-hop ed elettronica, nel contesto di un pezzo che non fa prigionieri a livello di pesantezza.

Altra doverosa citazione per lo struggente finale del disco con Deep End, che con il suo approccio chitarristico Alternative Metal che fonde sonorità tra Linkin Park e Deftones, sfocia in uno dei brani più sentiti ed emozionali del lotto anche grazie ad alcune delle liriche vocali più ispirate in assoluto di Courtney LaPlante che con quel “lost in my own waves” scandito verso il finale dell’album riesce ad incantare ed emozionare. Questo è un brano che riesce a toccare gli stessi tasti emotivi di una Constance (la closer di Eternal Blue), trattando temi leggermente diversi; In questo caso il pezzo è un sentito tributo al loro amico e compagno di band Bill Crook, scomparso l’anno scorso a cui la band ha dedicato un brano che potrebbe essere uno dei più emozionali e meglio riusciti di sempre della carriera degli Spiritbox. E nell’ambito di tutta questa malinconia, il delicato rumore delle onde ci accompagna negli ultimi secondi di questo incredibile viaggio ormai giusto al termine.

Tsunami Sea è un disco che ci ha devastato emotivamente. Un viaggio cinematico e multi sfaccettato che conferma la versatilità, il talento e lo stato di grazia di una band che continuerà ad essere dominante nella scena metal mondiale presente e futura. Se qualche anno fa gli Spiritbox venivano visti come una delle più grandi promesse di questo genere, oggi dopo una crescita esponenziale ed un importante successo mondiale, essi rappresentano a conti fatti, un’assoluta certezza all’interno della scena metal, essendo riusciti oltretutto a bissare, almeno a livello artistico, la qualità dello straordinario debutto Eternal Blue. Tsunami Sea è un piccolo gioiello nell’ambito del metal moderno, dove la crescita artistica del four-piece Canadese è palese ed evidente dal punto di vista artistico, concettuale, lirico, della produzione , del songwriting, della ricerca sonora e del coraggio artistico. Noi non vediamo l’ora di vederli live quest’estate agli I-Days di Milano assieme ai Linkin Park! E voi ci sarete?

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