Recensione: Turpitude
Con Turpitude, uscito nel 1993, i Risk concluono la loro breve, ma intensa, carriera discografica, costellata da 5 full-legth ed un EP (Ratman, Steamhammer/SPV, 1989), e da vari tour in giro per l’Europa. L’uscita di Turpitude, ad un anno dall’ottimo The Reborn (1992, Steamhammer/SPV) coincide con lo scioglimento della band e viene inciso con la stessa formazione con la quale è stato dato alle stampe The Reborn: Heinrich Mikus (Vocals/Guitars), Roman Keymer (Guitars, also Angel Dust, Crows, Centaur), Peter Dell (Bass, also Faithful Breath), Jürgen Düsterloh (Drums, also Faithful Breath) e Christian Sumser (Guitars).
C’è subito da rilevare il repentino cambio stilistico del gruppo che, da un Power/Thrash veloce, potente, dinamico e melodico, passa ad una sorta di Power intimista, ove le canzoni sono tutte dal ritmo lento e sospeso, i toni cupi e, a volte, malinconici. Questo cambiamento è profondo, in quanto parte dalla redice della canzone, cioè dal momento in cui essa viene composta.
E questo immergersi in atmosfere lente e meditate, credo, ha decretato la fine prematura del gruppo, forse, alla fine, disorientato per primo dall’evolozione/involuzione stilistica avvenuta nell’arco di un quinquennio a partire dal primo album The Daily Horror News (Steamhammer/SPV, 1988), dove l’atmosfera generale del sound era allegra, spensierata, ed il suon stesso potente, vario, orecchiabile e dinamico.
Di per sé, le canzoni che compongono il disco denotano un notevole sforzo a livello compositivo. Lo si percepisce dalla macchinosità dei brani stessi, dai ritornelli mai immediati, dalla ricercatezza di un sound lento e potente che, forse, avrebbe dovuto accogliere una fetta di ascoltatori maggiore che in passato.
Ebbene, a parere di chi scrive, l’esperimento è fallito, in quanto nell’album non ci sono canzoni particolarmente riuscite, di quelle, cioè, che rimangono impresse già da i primi ascolti. Tutto appare, sostanzialmente, anonimo ed un po’ noioso, immerso in un brodo nero ed uniforme.
Canzoni interessanti ce ne sono: non tutto il disco è da “buttare via”. Ad esempio, Hopeless Ground ha un buon groove, lento, meditato, melodico, dei begli assoli di chitarra, molto classici ed armonici. La stessa Cry, che apre il lavoro, è pervasa da un tono intimista e assai lento. Come lento è l’incedere della canzone stessa, che si risolve in un buon refrain semplice ed anthemico. Con The Day Will Come, si alza un po’ il ritmo, per una canzone dal buon ritornello, cantato in maniera ispirata e sentita da Heinrich Mikus. In And And We Don`t Care si riassapora, anche se in maniera minima, il marchio di fabbrica del gruppo, ovvero il senso di dinamicità che pervade le canzoni.
Le altre canzoni, a partire da una dimessa So Weird per passare da Squeeze My Skull & Brains , Show No Mercy sino ad arrivare all’ultima Serious Mysterious, esplicano il senso di noia e di sostanziale inutilità delle canzoni stesse.
In conclusione, con questo album i Risk hanno voluto fare il passo più lungo della gamba, abbandonando le sonorità che, comunque, avevano reso loro un carta popolarità, verso un tipo di songwriting che, a parere di scrive, il gruppo non ha saputo supportare con la classe e la varietà compositiva che il genere di album avrebbe avuto fortemente bisogno per uscire da un assoluto anonimato. Più che buona l’esecuzione dei pezzi e la produzione dell’album, che riescono, unitamente ad alcune buone canzoni come descritto più sopra, a mantenere l’album stesso oltre una dignitosa sufficienza.
Daniele D’Adamo
Tracklist:
1.Cry
2.Materialized
3.Not true
4.The Day Will Come
5.So Weird
6.Hopeless Ground
7.And We Don`t Care
8.Squeeze My Skull & Brains
9.Show No Mercy
10.Serious Mysterious