Recensione: Two Tragedy Poets …And a Caravan of Weird Figures

Di Marco Migliorelli - 14 Novembre 2008 - 0:00
Two Tragedy Poets …And a Caravan of Weird Figures
Band: Elvenking
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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82

Elvenking: la radice ed il ramo. Più fitta fronda torna dopo le sfumature di Heathenreel e la personificazione dell’albero in Wyrd; e ancora dopo le tonalità chiaroscurali e magiche di The Winter Wake e l’affondo romantico vermiglio nella polla di The Scythe.
Ed è un albero quello degli Elvenking che va infittendo i suoi rami; sfumature differenti della loro musica si intrecciano ogni volta ma senza dimenticare quel che nel profondo è l’essenza, la radice di un sound che non si ha più paura di esplorare, sondare in ogni suo più incerto tremolante raggiungibile angolo.
Un album completamente acustico potevamo attenderlo dopo la parabola figurale della natura e dei suoi incanti fino all’inverno ma non dopo l’esplorazione musicale del lato più romantico e fosco della morte, dopo che il nervo sottile e prezioso del violino di Elyghen illudeva quasi di scomparire dietro il lato più profondo e corposo delle chitarre e della voce stessa di un sempre più versatile Damnagoras, curioso e creativo della e con la sua voce.

Face future learning from the past

È scritto in Pathfinders; ed è questo un passaggio di una canzone significativa degli Elvenking la cui verità è dimostrata ad ogni nuovo saggio della loro musica.
Non siamo davanti ad un’opera completamente dipendente da quegli A morning dew o Totentanz o ancora da tutti quei passaggi acustici che abbiamo incontrato in passato come parti, sfumature funzionali di una personalità sfaccettata; abbiamo davanti una creatura musicale che senza dimenticare la propria radice cerca di essere essa stessa un lavoro a se stante ed in qualche modo inedito.
Il segno di questo rapporto di continuità ed al contempo di rinnovamento continuo è nella proposta di due pezzi a noi noti come Winter wake e The wanderer; canzoni che come mi è capitato di avvertire quasi subito, tendono più a configurarsi come pezzi similari agli originali che a manieristiche riproposizioni acustiche senza più alcuna nuova sfumatura da trasmettere.

Il piano che apre soffusamente The winter wake introduce in una dimensione della canzone più tenue e diluita rispetto all’originale sincopata ed a tratti rabbiosa; è il sussurro stesso di Damna che si contrappone alla sua stessa controparte “originale” nel chiudere la strofa nel titolo della canzone, ad essere indice di uno spirito diverso; spirito che rivela la profondità di un brano che ha ancora qualcosa di non detto da rivelare ed ancora evidenzia l’atmosfera più meditativa ed introspettiva del pezzo. Insieme alla chitarra acustica che è vero e proprio liquido amniotico, fondamento del disco, torna il violino di Elyghen che tanti dubbi aveva suscitato in quel meraviglioso inganno dell’udito che è The Scythe: l’inspessimento sonoro e vocale che il tema Romantico della morte ha preteso dei suoi cantori.
Il nervo sensibile e tirato, dolce del violino di Elyghen torna ad intrecciarsi più vividamente e con chiarezza alla chitarra acustica di Aydan (intervista) e qui come altrove nel disco scandisce i tempi uno Zender dal tocco discreto alle percussioni.
She lives at dawn…ed è la voce un soffio che va a muovere –essendo in ogni sillaba- i tasti del piano in accompagno –ogni nota d’avorio. Un minuto. Non sarà facile poco dopo, riconoscere l’attacco di The wanderer, acustico ma più fedele all’originale salvo poi dopo nemmeno 40 secondi scivolare anche qui in un sussurro di voce che con qualche nodo vivo di basso rallenta il brano su ritmi che la chitarra acustica nei suoi semplici ed efficaci rabeschi sostiene.
Quel che già emerge nell’ascolto dei due brani noti prima che in tutto il disco e forse ancor più proprio per la possibilità di un riscontro, è lo sfaccettarsi della voce di Damnagoras; sorpresa ancor più grande per lo straniamento che quella voce aveva prodotto nell’approcciare a pezzi come Dominhate e più in generale ad ogni affondo oscuro di The Scythe.
Voce che cede nel silenzio al violino di Elyghen ancora una volta, quando il brano volge al termine.
L’alchimia è completa; la continuità stabilita.

A new journey begins each time…leggiamo ancora in Pathfinders.

The caravan of weird figures è pronta ad introdurci nella parte più consistente del disco, quella inedita. Percussioni che ricordano vagamente la totentanz ma con un respiro diverso che il violino accentua; più che una danza scandita e cupa le percussioni fan qui da sfondo a striglie di vita soffuse ma vivide che ricordano semmai certi passaggi introduttivi degli irlandesi Mael Mordha.
Il preludio è breve, la sua presenza tutt’altro che trascurabile.
Il suo tono evocativo è soltanto una stringa breve di rugiada prima che Another awful hobs tale dal rullo iniziale vagamente riecheggiante i fasti di un pezzo del calibro di Oakenshield, esploda nella sua ritmicità quasi ballabile e senz’altro festosa tanto che non sorprende né stona verso il termine, un solo di chitarra elettrica di Aydan di rincalzo ad un ritornello già di suo frizzante e degno del più schietto folk.
Se c’è un brano in qualche modo gemellare a questo è poi Not my final song; torna concitato il ritmo, torna graffiante un ritornello semplice e diretto ma la voce di Damna in sintonia col testo si fa più giambica, sincopata; è proprio qui nell’accorciarsi degli spazi fra parola e parola, suono e suono, prima di uno degli stacchi migliori del disco a metà canzone (rabesco di chitarra acustica e voce più solenne e rallentata prima di un reprise quasi marziale –ascoltate su “my broken guitar…” insieme anche alla batteria più aggressiva e cadenzante-), è proprio qui la peculiarità di questa canzone. Non ho potuto leggere le parole ma non è difficile capire che è questo il testo in qualche modo più programmatico e ancora: aggressivo, energico, dissacrante nell’affermazione a partire dal paradosso della morte di una disincantata quando vivida affermazione di vita.
Se lo spirito che gli Elvenking han voluto ricercare era in qualche modo connesso ad un’aggressione positiva, narrante, grintosa alla propria musica sposando l’aspetto festoso del folk ad una vena personale solenne e reattiva anche nei testi, questa canzone oltre ad incarnarla pienamente fin nel midollo, -proprio per questo- è anche uno dei pezzi migliori dell’intero disco.
L’alchimia di fondo vede da una parte l’immediatezza di ogni singolo pezzo e dall’altra una semplicità da non sottovalutare: quel che ad un primo ascolto potrebbe apparire come un album costruito su brani spesso fra loro similari ma ugualmente godibili tende in realtà con un poco più di attenzione a rivelare peculiarità nascoste che vanno differenziando in sfumature il disco.
“Una carovana di figure”; il filo conduttore sono la sensazione e l’immaginario, non c’è un vero e proprio disegno a raccordare in sequenza le singole parti; in un ascolto ripetuto ma casuale c’è la possibilità di rinvenire più che in un primo ingannevole ascolto sequenziale.
Queste peculiarità risiedono negli intermezzi, nei break che caratterizzano i pezzi; un esempio è proprio From blood to stone: semplicità elevata a potenza quando parte puntuale lo stacco al minuto 2.28; è in questi interstizi che la vena più malinconica e solenne degli Elvenking trapela costellando di istanti l’anima festosa e grintosa dell’insieme; qui in particolare è un violino lento e solenne a preparare l’entrata di un lieve solo acustico di Aydan prima del sussurro finale.
Se nei break si nascondono le perle del disco, perché la semplicità sia arte e l’arte un tocco semplice ed umile, nei ritornelli si concentra l’energia del disco; esemplare quello di Ask a silly question che proprio nel trasporto corale del ritornello ricorda i momenti migliori di Wyrd, a rafforzare la sensazione di una musica che vuole farsi cantare sospesa fra graffiante giocosa festosità (a tratti con tinte giambiche) e raffinata dolce malinconia. Un ritornello veloce e coralmente “urlato” si alterna a momenti strofici più rallentati in cui oltre al violino è la voce di Damna a variegarsi di sfumature molteplici.
La voce è, infatti, elemento protagonista di questo nuovo lavoro degli Elvenking; Damna dimostra di cogliere un’occasione per lui importante in cui lavorare sulla varietà dei propri potenziali vocalizzi temperando spesso la sua vena più aggressiva e graffiante con un approccio vocale più diluito lento e cristallino. Anche in questo caso emerge la ferma volontà di non uniformare il disco ad un’atmosfera, ad un mood che sia lo stesso per tutta la sua durata. Voce, atmosfere cercano di diversificare la proposta non solo musicale quanto anche emozionale all’ascolto. Ne sia prova l’atipica forse troppo lineare Heaven is a place on earth: ritornello estremamente catchy e brano che facilmente si lascia canticchiare. E’ una cover di Belinda Carlisle; l’idea di un riadattamento di questa canzone degli anni ’80 è in sé buona ma manca però quella particolarità, quel rabescarsi sottile degli strumenti secondo un’arte umile e ricca della semplicità che connota in modo convincente il resto del disco. Non siamo davanti ad un tentativo mal riuscito e ne è prova il bel solo di chitarra con venature elettriche; probabilmente la sua atipicità risiede nel fatto che è l’unica vera canzone a distaccarsi non poco da qualsiasi prossimità al folk; atipicità che permane nonostante la rilettura musicale degli Elvenking.
Silenzio quindi, silenzio. Una chitarra intreccia l’aria affinchè il violino ed una tenue cornamusa possano spalancare le porte alla voce di Damna, sommessa e cristallina prima che le percussioni di Zender, nel miglior ricordo della Totentanz  introducano un momento corale lento ed al contempo vivo. My own spider web è forse quella che strutturalmente e per l’atmosfera veramente intima e cadenzata da percussioni discrete potremmo definire una ballad. E’ questo anche il momento in cui supportato da un ritornello corale struggente e lento, il violino di Elyghen incarna tutta la malinconia e la dolcezza di cui è capace.
E’ Zender invece ad aprire, sempre in cadenza The blackest of my heart. In una spirale lenta di lievi sovrapposizioni la voce mutevole di Damna intreccia le stringhe testuali fino all’esplosione del violino ancora una volta ed al bridge che infonde un ritmo lievemente più accentuato al pezzo. L’atmosfera è intima ed al contempo solenne. La batteria chiude in un riverbero una sequenza di due canzoni che potremmo raccordare e definire come il momento più introspettivo dell’intero disco. Miss conception chiude però le danze con un’indole ben diversa: il ritmo in apertura si fa più vivace, la batteria riprende il proprio battito regolare e Damna torna a ravvivare il pezzo con un approccio più rockeggiante. Prezioso l’intreccio al minuto 2.13 di violino e chitarra in arpeggio prima di un reprise una volta ancora su tonalità e sfumature diverse. Se è vero che l’album rispetta pienamente i canoni della forma canzone è altrettanto giusto evidenziare come pezzi di lunghezza normale vengano strutturate salvo l’unico episodio di Heaven is a place on earth, col massimo della semplicità unito ad un’interessante dose di variazione. Non si tratta di una variazione strutturale ma di un camaleontico susseguirsi di sfumature. Unico neo, la durata del disco riflessa in una manciata di brani il cui potenziale appena disvelato lascia col desiderio di un “qualcosa in più” che con ottime probabilità in successivi, differenziati esperimenti potrebbe sortire in modo ulteriormente nuovo e sempre a livelli di buona ispirazione. Poco più di 43 minuti dunque; ma scivolano via come brezza emozionale e l’unico rimpianto che resta è quel desiderio inappagato di voler “un altro giro, ancora” che sia una canzone o sia l’ennesima ultima pinta che non si vorrebbe mai ultima così come This is not my final song, il grido ironico e scanzonato di un gruppo che non smette mai di scrutare in cerca degli infiniti, possibili volti della propria musica.

Marco ‘Fleba’ Migliorelli

Tracklist:
1. The Caravan of Weird Figures 01:16
2. Another Awful Hobs Tale 03:09
3. From Blood to Stone 04:11
4. Ask a Silly Question 03:30
5. She Lives at Dawn 01:24
6. The Winter Wake 04:11
7. Heaven is a Place on Earth 04:11
8. My Own Spider’s Web 04:21
9. Not My Final Song 04:44
10. The Blackest of My Hearts 03:30
11. The Wanderer (digipack bonus) 04:54
12. Miss Conception 04:50
13. My Little Moon 03:47

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