Recensione: Tyhjyys
I finlandesi Wolfheart ci consegnano la loro terza fatica in studio. Capitanati dall’instancabile veterano Tuomas Saukkonen che, abbandonati tutti i progetti precedenti, formazioni come Before the Dawn, Black Sun Aeon e Dawn of Solace, dedica tutto il suo tempo alla sua ultima creatura: i Wolfheart. Nel 2013 esce quindi “Winterborn”, primo album capace di riscuotere consensi sia da parte della critica che del pubblico, seguito, nel 2015, dal secondo platter “Shadow World”, dove Tuomas prosegue sulla stessa strada con un altrettanto ottimo risultato. A differenza dei primi due lavori, dove il nostro caro Tuomas Saukkonen suonava tutti gli strumenti in fase di registrazione per poi affidarsi a dei session per i vari live, in “Tyhjyys” ci troviamo al cospetto di una vera e propria band. Vengono chiamati in causa Lauri Silvonen (basso), Joonas Kauppinen (batteria) e il compagno e collega di vecchia data Mika Lammassaari (chitarra). Il risultato ci regala un disco più corposo, complesso e ricco di sonorità, mantenendo quel tipico coinvolgimento emotivo, ambientale e volutamente grezzo creato con i primi due album.
Il tema affrontato in quest’ultima fatica dal quartetto scandinavo è il vuoto, tyhjyys in finlandese, che, oltre ad essere il titolo dell’album, è anche il tema principale dei testi. Ovviamente il riferimento è filosofico e non scientifico. Vengono affrontate tematiche legate alle calamità naturali, tempeste, alluvioni e bufere, che sono governate da forze così potenti e al di sopra della comprensione dell’essere umano, lasciandolo avvolto da un vuoto assoluto, trovandosi nel bel mezzo dell’occhio del ciclone. Quest’abisso è provocato dall’impotenza e dallo stupore assoluto di fronte a un tale potere misterioso. I Vichinghi, forse, spinti a contrastare questo vuoto e la desolazione della possente e spietata, ma allo stesso tempo magnifica, natura delle terre del Nord, partivano con le loro navi, spingendosi lontano per devastare i popoli oltre il mare, proprio come una tempesta che lascia il vuoto al suo passaggio. Colmare l’abisso creando altro abisso attraverso il sangue e la distruzione, fino a sprofondare anima e corpo nella grandezza più profonda dell’infinito vuoto. Viene narrato, inoltre, il tema del vuoto creato dall’inverno senza fine, dal bianco accecante e dal silenzio assordante delle terre desolate. Tanto bella quanto spietata la bianca giornata invernale, tutta quella luce, così intensa, da far venire il desiderio di invocare l’eterna oscurità attraverso la danza della luna. Ascoltare un ululato in lontananza, seguito da un grido di un cacciatore, che sentenzia la fine di un’esistenza, una vita presa e destinata a scomparire nel vuoto, la cui morte assicura la sopravvivenza al proprio carnefice. Si affrontano quindi, attraverso i testi delle canzoni, i paradossi esistenziali dell’uomo e il suo legame con la natura e le sue calamità. Il bianco e la luce che genera l’oscurità, la morte che perpetua la vita e il vuoto che crea l’infinito, come un sogno dal quale non ci si desta mai.
Anche musicalmente “Tyhjyys” è intriso del legame con la natura, le calamità, il nord e il freddo. I Wolfheart propongono un riuscito mix tra death, black e folk, con sfumature di viking metal. Il coinvolgimento iniziale è affidato all’opener strumentale ‘Shores of the Lake Simpele’ con i suoi delicati ed evocativi passaggi acustici iniziali, che si tramutano in un riff dal sapore nord-europeo. Con la successiva ‘Boneyard’ entriamo nel vivo di quest’album e ci troviamo di fronte a un brano che mette in mostra l’elevata qualità della produzione del platter e l’impeccabile capacità esecutiva dei componenti della band. Le sonorità sono un perfetto mix tra atmosfere black e le velocità blast beat del melodic death, con un intermezzo acustico folk e i cori finali tipici del viking metal. Un brano molto rappresentativo, che funge da perfetto biglietto da visita per l’intero album e per i Wolfheart in generale, soprattutto per chi non li conoscesse già. Come sappiamo, Il grande rischio nel mischiare tante influenze diverse è quello di creare un lavoro superficiale e banale, senza approfondire nessuna delle sonorità proposte, semplificando il tutto. Con i Nostri ciò non accade nemmeno lontanamente. La grande capacità e il merito va riconosciuto a Tuomas Saukkonen e ai suoi compagni, per avere dato spessore, serietà e profondità all’intero lavoro. Pur risultando un lavoro orecchiabile e a volte quasi catchy, come in ‘World on Fire’ e in ‘The Rift’, i Wolfheart non risultano né troppo semplici, né eccessivamente morbidi o banali, mantenendo indenne il rispetto per le sonorità che propongono. In ‘The Flood’ veniamo immersi nelle atmosfere della tradizione scandinava, con un black melodico che fa venire alla mente i migliori Amorphis. Discorso analogo possiamo fare per il brano ‘Call of the Winter’, dove il coinvolgimento è ulteriormente ampliato con la dimostrazione del profondo rispetto per le tradizioni del genere, o meglio, dei vari sottogeneri musicali che contraddistinguono i Wolfheart. Queste sonorità sono impossibili da catalogare sotto un unico scaffale, ma nonostante tutto si fanno riconoscere e rispettare da qualunque melomane, grazie proprio a brani come ‘Call of the Winter’. La chiusura di questo lavoro è affidata a ‘Dead White’ e la title-track ‘Tyhjyys’, canzoni che aggiungono ulteriore epicità e malinconia all’intero capitolo. Ricche di cori e orchestrazioni evocative, che però non prendono mai il sopravvento sui graffianti e spesso volutamente grezzi riff delle chitarre. Il mood è ampliato dal perfetto growl di Tuomas, che con il suo canto emotivo e trascinante, ci accompagna nelle desolate e innevate lande nord-europee. La parte finale della title-track è arricchita da un prodigioso e appropriato assolo di chitarra, tanto per chiudere in bellezza un lavoro superlativo che, con le sue ultime note, lascia un vuoto dietro di sé. Un vuoto che può essere colmato facendo ripartire l’album dall’inizio, riascoltandolo ancora e ancora, per poter cogliere le varie sfumature che tale opera ci offre.
Un disco che di certo non stravolgerà il panorama musicale a cui appartiene. Piuttosto lo consolida, aggiungendo un capitolo importante allo scenario musicale in generale e soprattutto all’ibrido neo-genere al quale appartiene. I Wolfheart riescono a conciliare le diverse influenze affini tra loro, tirando fuori, più che un ibrido, un’entità musicale ben definita, seria e matura. Proseguendo quel percorso portato avanti da gruppi d’avanguardia come Insomnium, Be’lakor e Omnium Gatherum. Gruppi che, oltre ai meriti che gli si possono attribuire, presentano un denominatore comune: nonostante introducano elementi nuovi, sono contraddistinti dalla serietà e il rispetto per la tradizione. Soltanto conoscendo e rispettando il passato si può ambire a un solido futuro.
Vladimir Sajin