Recensione: U.M.A.
Li avevamo scoperti, un po’ sgomenti un po’ increduli, due anni fa, all’uscita di Promo 2011, i Progenie Terrestre Pura, fantomatico duo proveniente dal bellunese e dedito alla forgiatura di una musica algida e sopraffina. A due anni da quel Promo 2011 i nostri hanno giustamente trovato una casa discografica pronta a valorizzare il loro potenziale e non posiamo negare che i due non avrebbero potuto cadere in mani migliori: l’Avantgarde Music è da anni sinonimo di qualità ed è risaputa talent scout (tra i nomi illustri scoperti dall’etichetta italiana impossibile dimenticare Katatonia e Solefald).
Ciò premesso, Uomini, macchine, anime (abbreviato in U.M.A.) continua sulla via di quel Promo 2011, ovvero la via della contaminazione tra metal ed elettronica che oramai, siate avezzi ai Rammstein o no, non dovrebbe più destare molto scalpore. Ad ogni modo la Progenie tenta sentieri inesplorati, indaga da un lato il cosmo vuoto e dall’altro le possibilità di fare musica estrema con ritmiche molto, molto lente, mischiate per di più all’elettronica ambient e minimale. Ne viene fuori qualcosa di nuovo e affascinante, a cominciare dall’arte vocale di Nex[1], tesa verso uno stile che si richiama allo screaming ma si esprime in un sussurro.
Al di là di questo, l’album si sviluppa su cinque capitoli estremamente evocativi e strutturati, per una musica sfuggente e piuttosto difficile da descrivere, non solo per la mancanza di termini di paragone. La opener, Progenie terrestre pura, colpisce per la sua capacità di mischiare riff di chitarra malati, decisamente black, a una base elettronica in netto contrasto, molto più serena e cristallina. Sovrarobotizzazione si caratterizza per atmosfere meccaniche e tastiere groovose, a parere di chi scrive il miglior pezzo del lotto. In tale episodio il singer dimostra di avere una buona padronanza anche a livello di clean, pur tuttavia la band si mantiene fedele all’idea di tenere le vocals molto basse rispetto alla musica, quasi fossero un fruscìo, un disturbo, un effetto sonoro. Ottima anche la strumentale Terra rossa di Marte, in tutto la più elettronica e meno metal del lotto, che si risolve in sonorità ipnotiche non estranee, volendo esser blasfemi, ai Depeche Mode di Music for the masses. Si va a avanti con Droni, altro pezzo strutturato che si apre su toni post metal e prosegue su diversi cambi di ritmo, o meglio d’atmosfera, in direzione black, mentre Sinapsi divelte, come già detto dal mio illustre predecessore, si conferma come il brano più vicino ai canoni di metal classico.
A questo va unito un booklet di ottimo livello, testi in italiano di non elevato profilo artistico ma di indiscusso fascino fantascientifico ed eccoci innanzi ad un piccolo gioiello, di forte personalità, eppure ancora acerbo. Se è indiscutibile la qualità della proposta, permane ogni tanto la sensazione che il duo debba limare ancora un po’ la forma, ed anche la scelta di non curare molto a fondo la produzione, per quanto coerente alla scuola black, non premia a dovere il lato ambient dei nostri. Un debut coi fiocchi, ma the best is yet to come, ed è una cosa che dovrebbe riempire di speranza ogni estimatore del black italico (e non solo).
Inutile dirlo, probabilmente ci troviamo dinnanzi alla nascita di una grande band, forse la prima che sarà in grado di ridare veramente lustro al metallo nero nostrano (spurio quanto si voglia, ma di ineluttabile spessore artistico) dopo lo scioglimento degli Hortus Animae. E perché no, magari abbiamo trovato un’altro grande progetto che saprà crearsi un nome di band non allineata a livello europeo, seguendo l’esempio di Novembre e Dark Lunacy.
Tiziano Vlkodlak Marasco
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