Recensione: Ufo1

Di Abbadon - 9 Aprile 2005 - 0:00
Ufo1
Band: UFO
Etichetta:
Genere:
Anno: 1971
Nazione:
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73

Non tutte le grandi band sono partite con grandi esordi. Anzi, è molto facile, più nell’hard dei primi settanta che in anni e generi successivi (dove diversi capisaldi arriveranno proprio coi debutti), che gruppi che da lì a un decennio sarebbero diventati magari fondamentali, abbiano esordito nel più puro anonimato. Degli oggetti volanti appunto ancora non identificati erano proprio lì, nell’anonimato. Tutti (anzi non tutti) oggi conoscono gli Ufo, li conoscono per quel pazzo grandioso di Michael Schenker, per gli sfavillii di “Doctor Doctor” e “Lights Out” e così via, beh preparatevi perché qui non c’è nulla di tutto ciò. Non “Doctor Doctor” e “Lights Out”, non Michael, ancora minorenne e arroccato in quel di Hannover, non la Chrysalis Records, ancora impreparata a strappare i londinesi alla Rare Earth. Questa, nell’anno di grazia 1971 era la situazione di un quartetto (prendente il nome da un famoso club londinese) che si affacciava al mondo del rock e che vedeva nelle sue fila il talento di Pete Way  (basso), l’energia di Phil Mogg (voce), le lune di Mick Bolton (chitarra) e la precisione di Andy Parker (batteria). “Ufo1” è il primo di una lunga serie di capitoli che vedranno Way e soci affermarsi pochissimo in patria e di più (anche se dopo “Flying” ci si renderà conto che le cose vanno molto male a livello economico) all’estero, in modo tutto sommato meritato. “Ufo1” non è infatti un brutto album, anche se oggi fa molto effetto sentirlo. Non contiene infatti (salvo verso il finale) melodie brillanti, riffs rocciosi e quant’altro sarà marchio di fabbrica futuro del combo (la svolta verrà con Schenker), bensì una “sostanza musicale” composta principalmente da space rock infarcito da ritmiche boogie, hard, blues e molta, immancabile in quel periodo, psichedelia. In questa sua diversità saltano comunque subito alle orecchie alcuni stilemi che marchieranno i londinesi, primo fra tutti la condizione privilegiata del basso, sempre presente, udibile e trainante. Questo è reso possibile da Pete Way che diventerà, in stile e movenze su palco, ispiratore di numerosi futuri grandi interpreti nel ruolo (Steve Harris li rappresenta tutti degnamente). Anche la voce di Mogg, non particolarmente unica o talentuosa (in questo lavoro ancora meno che in altri, vista la non eccellente registrazione), ma ferma, carismatica e decisa, diverrà emblema riconoscibile per gli aficionados. Le song, ben 10, non seguono uno schema preciso, escludendo i canoni già citati : troviamo dunque pezzi indifferentemente brevi o lunghi, arzigogolati, diretti oppure onirici.

Proprio onirici definirei gli effetti dell’opener, la title track “Unindentified Flying Object”. Trattasi semplicemente di una piccola strumentale, basata su un arpeggio piuttosto pacato (che presto si distorcerà in un altrettanto pacato assolo) ben supportato da basso e batteria. Nulla di particolare se non per degli effetti sonori che fanno intravedere nella nostra mente paesaggi certamente non convenzionali. Ben più sostenuta ritmicamente, anche se non scintillante come sonorità, la seguente “Boogie”. Trattasi, appunto, di un boogie (che fantasia) dove tutta la differenza la fa il buon Pete, che imprime una ritmica del tutto impossibile da non seguire con enfasi. Discrete ma nulla più chitarra e batteria, del tutto trascurabile il cantato. Piuttosto importante per la band fu “C’mon Everybody”, grazie all’omonimo singolo che rese nota alla band in paesi quali Giappone e Germania (ovviamente non il Regno Unito, come spiegato sopra). In effetti le qualità del singolo le ha : partenza roboante, velocità del brano, buon assolo  e numerose improvvisazioni fanno di “C’mon…” un ottimo passatempo, ideale per le radio dell’epoca. Ben più guardinga delle precedenti è “Shake it About”, inizialmente proprietaria di un taglio che la rende piuttosto intrigante, alla “sigla della pantera rosa” per intenderci. Molto merito di questo effetto lo prende una 6 corde non particolarmente tecnica ma certamente stralunata ed imprevedibile. La canzone si mantiene interessante, se si ama questo tipo di musica (altrimenti un ascoltatore medio non sarebbe durato una traccia), anche successivamente, col suo progressivo velocizzarsi. Prima ballad della carriera UFO (una serie piuttosto lunga, sebbene possa non sembrare) arriva con quella che è la miglior track del platter, “(Come Away) Melinda”. Lento (e cover dei The Weavers) la quale reinterpretazione è ancora molto orientata sulle sonorità assimilate finora, fa trasparire comunque un buon velo di sensazioni a cavallo fra malinconia e belle speranze, sensazioni enfatizzate da un questa volta buon Phil Mogg, qui ottimo interprete. Giro di boa e partenza a razzo con l’ottima “Timothy”, 3 minuti e mezzo di pura energia (forse dire brio è troppo). Molto veloce, ispirata e decisamente più lineare di tante tracks che l’han preceduta, Timothy fa come suo punto di forza, oltre alla già citata, trascinante, ritmica, un intreccio basso/chitarra di massimo rispetto, chitarra che fra l’altro si esibisce in un bel solo che impreziosisce il tutto. Una chiusura improvvisa fa da preludio alla simpatica “Follow you home”, song che oggi sa un po’ di sentito (specie il riff) ma che non per questo è meno brillante (vale a grandi linee il discorso fatto per “Timothy”, di cui Follow è una ideale “seconda parte”). Dopo un uno/due  piuttosto agitato si torna su lande ben più pacifiche, incarnate nell’onirica “Treacle People”, manifesto del più quieto space, con la sua rilassatezza e il suo affascinante contegno, spezzato ogni tanto da una guitar imprevedibile ma sicuramente dentro le ranghi. Penultimo atto e altra vetta del disco (quantomeno in lunghezza) è “Who do you love”, brano che racchiude in sé il meglio di quanto sentito finora su “Ufo1”. L’alternarsi delle atmosfere, degli stili utilizzati, il fascino innegabile dei solos, pur semplici, rendono “Who..” una chicca per gli amanti del proto hard rock, quale questo disco fondamentalmente è. La chiusura, aperta da un arpeggio apparentemente innocuo, è affidata a “Evil”, molto poco evil dal punto di vista del suonato (più nel testo), ma che comunque lascia buoni ricordi, soprattutto in un assolo che può vedersi come “precursore”, stilisticamente, di quelli Schenkeriani che verranno solo qualche anno dopo.

Mah, sinceramente non riesco a capire perché, viste le tendenze del popolo rockettaro di quegli anni, “Ufo1” abbia così tanto faticato ad essere apprezzato e riconosciuto. E’ vero che in quel settore c’erano già colossi affermati, ma una nuova realtà, anche piuttosto buona, non faceva certo male. Ne è testimone un lavoro più che discreto, sicuramente difficile da ascoltare nelle sue fasi iniziali, ma che cresce decisamente con lo scorrere delle canzoni, soprattutto da “(Come Away) Melinda” in poi (forse perché iniziava a intravedersi lo stile che sarebbe esploso definitivamente da Phenomenon). Probabilmente il prodotto è stato rivalutato col tempo, visto che Way dice che è il lavoro Ufo più venduto ad oggi (mi permetto comunque di non credere a questa affermazione), sicuramente è un inizio volendo “da collezionisti”, che però lascia intravedere quella che sarà l’enorme traccia lasciata da Mogg&Co. nel panorama rock inglese e non solo.
Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Unindentified Flying Object
2) Boogie
3) C’mon Everybody
4) Shake it About
5) (Come away) Melinda
6) Timothy
7) Follow you home
8) Treacle People
9) Who do you love
10) Evil

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