Recensione: Ugly Farm
Una copertina dal gusto western da far invidia a Sergio Leone e a Quentin Tarantino, una bella attitudine casinara e divertita, un “tiro” davvero ragguardevole e ben dieci canzoni a metà strada tra groove, southern e qualche sapiente spruzzata di alternative: niente male come biglietto da visita per i nostrani Brain Distillers Corporation, giunti all’esordio discografico nel 2016 con “Ugly Farm”.
Se i primi riferimenti che vi vengono in mente, in termini di sound e di immaginario, sono Black Stone Cherry e Black Label Society di certo non siete fuoristrada. Tuttavia è altrettanto corretto rimarcare che il quintetto composto da Marco Pasquariello alla voce, Matteo Bidoglia e Francesco Altare alle chitarre, Luca Frangione al basso e Fabrizio Ravasi alla batteria ci mette davvero molto di suo, implementando all’interno della propria proposta svariate altre influenze che vanno dal blues all’hard rock anni ’70 passando per il grunge.
Protagonista assoluta della partita è la voce corposa e colorata del Pasquariello, accostabile a quella di Chris Robertson dei Black Stone Cherry nel suo trovarsi a proprio agio tanto nelle fascinose ballate (“Lost Friend” con la partecipazione di Stef Burns, “Maybe One Day”), laddove fa capolino l’ombra di Eddie Vedder, quanto nei pezzi più sparati in cui la somiglianza con il timbro vocale di Zakk Wylde appare più tangibile (“Who”).
Pasquariello, ad ogni modo e senza dimenticare il valente contributo del resto della ciurma e di alcuni ospiti d’eccezione, dipinge da par suo una serie di melodie assolutamente indovinate facendosi valere in tutti i contesti. Risultano infatti molto gradevoli e ben riusciti sia gli episodi maggiormente votati al groove (come “Marvin” e “The Right Way To Go” con l’incipit à la Pearl Jam) sia gli episodi in cui il gioco si fa più duro e le atmosfere oscure, a metà strada tra il grunge di casa Alice In Chains e il nu-metal degli Slipknot (“Who” e “Where Is God?” con Tommy Massara degli Extrema).
Più particolari, e anche per questo molto apprezzabili, le conclusive “Seam Line” e “The Biggest Crime”, la prima quasi una semi-ballata dall’andamento parecchio umorale, la seconda un imprevedibile sintesi di chitarre distorte al limite del nu metal e vocals di marca southern.
Non hanno il nome (o il marchio, che dir si voglia) di band più acclamate ma hanno qualità, buonissime doti compositive e le idee molto chiare in merito al da farsi e al come proporsi: non resta che godersi con estremo piacere le dieci canzoni di “Ugly Farm” e augurare ai Brain Distillers Corporation di raggiungere il meritato riconoscimento.
Stefano Burini