Recensione: Ultraviolet
L’ultravioletto è qualcosa che, seppur invisibile, sappiamo esistente. Lo possiamo percepire , non in modo diretto tramite i cinque sensi, eppure tutti ne conosciamo gli effetti. E questo album sesta fatica dei dei Kylesa, gruppo metal statunitense, si chiama appunto Ultraviolet. I Kylesa che non sono mai stati una band facile da catalogare, a cominciare dal fatto di non essere identificabili da un frontman nonostante la classica formazione a quadro (almeno quella attuale). Stesso discorso per il loro sound, che, seppure si sia sempre evoluto su coordinate comuni, è sempre stato molto difficile da decifrare, perfettamente percepibile eppure indescrivibile.
Ecco, in aggiunta le tematiche di Ultraviolet si concentrano proprio su tutto ciò che è esistente ma non è percepibile ad occhio nudo. Immaginate un po’ in cosa stiamo per addentrarci. Un disco disco che ad un primo ascolto sembra estremamente lineare, semplice, compatto. Qualcosa di estremamente facile da metabolizzare, con piglio catchy e canzoni brevi, che trascorrono senza particolari sussulti. Certo, vi sono brani più veloci ed altri lisergicamente languidi, vi sono pezzi tirati ed altri dai toni straniati. Sludge metal e canzoni brevi, diresti.
Ma solo al momento di descrivere questo disco ci troviamo innanzi alla sua intangibile complessità, solo quando le dita stanno per sfracellarsi sulla tastiera emerge una incredibile turbine di sensazioni, e i Kylesa non sembrano più una semplice band sludge. Sembrano piuttosto una band che ha ascoltato tantissimo rock alternativo americano, dai Pixies ai Sonic Youth di Teenage Riot. In tal senso poi va citata Exhale, opener del disco: è impressionante nel suo avvicinarsi ai Beastie boys. Perché si dica quello che si vuole, che non è rap, che questa musica è più pesante, ma la strofa di Exhale sembra quasi un omaggio a quella di Sabotage. Forse per lo stile vocale dei due singer, le cui voci peraltro si intersecano meravigliosamente per tutto il disco, a metà strada tra il grido, il rantolo e il lamento. Degne di nota poi sono anche le canzoni più stranianti, Low Tide e Drifting, a metà strada tra sogno e incubo, ballad malate che vanno vicino agli inglesi Stone roses, ai già citati Sonic Youth o ai newyorkesi Liars, di cui ereditano il gusto per la melodia spenta e malata.
Insomma, quello che a tutta prima sembrava un disco buono ma relativamente semplice, si rivela essere un disco estremamente complesso e sfaccettato. I Kylesa qui sfornano probabilmente, se non il loro disco migliore, il loro disco più maturo e si ritagliano una nicchia all’interno del panorama americano che può essere analoga a quella dei Katatonia in Europa. Se vogliamo continuare il paragone, questo potrebbe esserre il loro Tonight’s decision. Ora aspettiamo il loro Last Fair Deal Gone Down.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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