Recensione: Unborn
Ancora i Six Feet Under per quest’anno. Ancora Chris Barnes che se ne esce con una formazione ancora una volta rinnovata dall’ingresso di Jeff Hughell al basso e Ola Englund alla seconda chitarra (al posto dell’ex Chimaira Rob Arnold) ed un secondo capitolo di Undead, recensito solo pochi mesi fa: ecco a voi Unborn!
La segatura del precedente album? I commenti si sprecano online, ma noi vogliamo essere ingenuamente oggettivi e diciamo subito che questo album, dopo le sfuriate di Undead ci riporta nella melma di una fossa allagata da tonnellate di litri di pioggia incessante.
Neuro Osmosis è un inizio lampante in tal senso; zoppicante e dissonante come poche, ci trascina nell’incubo vorticoso di Barnes con le unghie, un incubo che è anche una certezza: i Six Feet Under non cambiano di una virgola neanche questa volta, e ci danno quello che sanno fare meglio, marcio death metal!
Prophecy è solenne e imponente nel suo incedere, e mette in mostra ancora una volta il gioiellino Kevin Talley, ex Dååth, che, grazie ad una produzione davvero cristallina e al suo tocco felpato, si rende ancora una volta partecipe di una prova da incorniciare dietro le pelli (ascoltate per credere il finale di Zombie e l’inizio di Incision!).
Zombie Blood Curse è il pezzo che vale il disco: catchy e apparentemente spensierata (passatemi il termine), si impantana all’improvviso tra stridii di chitarre e sangue a secchiate vomitato da un lacerante (come sempre) Chris. Singolone per deathster!
Si gode anche parecchio con il riff di Decapitate, tagliente e horrorifico come pochi, ma il brano non è all’altezza: diventa ripetitivo quasi subito e si salva a stento con la sgommata centrale in momentanea accellerazione.
È l’inizio della discesa della curva d’interesse, la mia rece si potrebbe fermare tranquillamente anche qui, perché né i lievissimi tempi dispari di Fragment, né il pavido tentativo di assalto di Alive to kill you riescono a riscattare il resto di una tracklist che ci fa languire nella noia più totale. Ci si muove un po’ di più con la sibilante sinuosità di Psychosis ma, in realtà la finale The Curse of Ancients, la si attende con l’ansia di un autobus in ritardo al termine di una dura giornata di lavoro.
In conclusione non vediamo proprio l’utilità di questa seconda uscita a distanza di pochi mesi, per una band che già storicamente non brilla in originalità. Copertina fantastica, produzione molto buona, la tecnica complessiva del gruppo è migliorata, è vero, ma il problema è che non sono messe al servizio di un’architettura dei brani veramente degna di nota né, e questo è forse ancor più grave, della brutalità che ci si aspetterebbe. Dov’è finita in questo innocuo Unborn?
Va bene la putrescenza come marchio di fabbrica, ma se il brano più originale del lotto risulta essere la blackeggiante, e non trascendentale, bonus track Illusions (presente solo nella versione digipack), ci sa che qui, quello che si sta decomponendo è la “vena compositiva” di Chris Barnes…
Sufficienza solo per rispetto!
Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro
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