Recensione: Unconquered
Processo inverso.
L’esperienza insegna che una buona percentuale di band che hanno approcciato inizialmente il metal nella sua frangia più oltranzista, a mano a mano che sono passati gli anni, si sono sempre più… ammorbidite; forse alla ricerca di strade diverse da percorrere, forse nell’intento di risultare più accattivanti, forse per rendere più articolata la loro proposta musicale, forse… chissà, per seguire la loro età anagrafica e la conseguente maturità che, inesorabilmente, le ha portate a picchiare meno forte sugli strumenti.
I Kataklysm no.
Partiti dal melodic death metal, hanno via via potenziato il loro sound sino ad arrivare, con il loro quattordicesimo LP, “Unconquered”, a una forma micidiale di death metal senza fronzoli né compromessi, a volte talmente secco e tagliente da diventare brutale deathcore; in ogni caso aumentando a dismisura la propria foga demolitrice. Certo, un pizzico di melodia c’è ancora, come in ‘Underneath the Scars’ e – soprattutto – in ‘Icarus Falling’, ma si tratta più che altro di casi isolati, invece che di uno schema fondamentale della loro attuale idea musicale.
Maurizio Iacono è il fiero condottiero di mille battaglie, e pare nondimeno risorgere continuamente dalle sue ceneri per aggredire il microfono con furia devastatrice, derivante dalla feroce interpretazione di un growling stentoreo, cattivo, aggressivo all’inverosimile.
Discorso analogo per la sezione prettamente strumentale, assurta a bombardiere di ordigni termonucleari che deflagrano con smisurata potenza sonora. Un sound, appunto, mostruoso, annichilente, distruttivo di tutto ciò che incontra sul proprio cammino. Tuttavia, ed è qui che entrano in gioco esperienza e classe, perfettamente pulito, incredibilmente intelligibile in ogni suo singolo passaggio, preciso e cronometrico nella sua sequenza di accordi. Una mannaia pesantissima che si abbatte con frequenza furibonda sulla collottola del malcapitato o, meglio, fortunato ascoltatore.
Riff su riff si accatastano con impressionate continuità, tipo segaossa, producendo spesso un ritmo sincopato, quasi fossero addirittura generati da una macchina come in ‘The Way Back Home’. In questi casi sfiorando la precisione chirurgica e il flavour cibernetico dell’industrial o del cyber death metal, appunto.
Inutile pensare di avere un solo attimo di quiete: le canzoni si susseguono senza tregua, manifestando un gruppo in grandissima forma, in grado di produrre, senza pecche, metallo estremo a profusione. Immense colate laviche si possono immaginare come eiettate da ogni singolo brano, in cui la potenza è assolutamente allineata ai massimi livelli di decibel producibili con una formazione a quattro elementi (sic!). Da ‘The Killshot’ a ‘When It’s Over’ si perpetra un totale massacro sonoro, mediante tutte le composizioni che, assieme, formano un nucleo dalla massa elevatissima, cui ruotano attorno vorticosamente le parole delle tematiche del platter. Impressionante, per esempio, ‘Defiant’, indescrivibile bordata scatenata dal mostruoso ritmo dettato da blast-beats al fulmicotone. La disgregazione molecolare è assoluta, e questo poiché anche se lanciato alla velocità massima possibile, il combo canadese riesce, quasi incredibilmente, a non perdere nemmeno per un picosecondo l’incastro pazzesco che vige fra chitarra, basso e batteria.
Circostanza dimostrativa, peraltro, del livello tecnico raggiunto dall’act nordamericano, assestato sui gradini più alti della piramide planetaria. Davvero difficile pensare che sia possibile fare di meglio.
Impressionanti, spaventosi, pazzeschi. In una frase, da non perdere nel modo più assoluto dai loro fan e, più in generale, di quelli del metallo al calor bianco.
Daniele “dani66” D’Adamo