Recensione: Under a Goddess Veil

Di Costanza Marsella - 10 Dicembre 2020 - 0:23
Under A Goddess Veil
Band: Draconian
Etichetta: Napalm Records
Genere: Gothic 
Anno: 2020
Nazione:
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83

I Sethiani (o Seziani) erano un gruppo di cristiani delle origini, le cui acquisizioni andarono ad alimentare quel fulgido torrente carsico che inevitabilmente diede, e per una parte non trascurabile, sostanza alla teologia cristiana modernamente intesa: lo gnosticismo. E così come la quasi totalità degli gnostici, i sethiani ascrivono al “furto” prometeico da parte di uno degli eoni, Sofia, di una scintilla divina dal Pleroma -la pienezza divina- l’origine delle generazioni umane. Queste ultime, in tal modo, lungi dall’essere un’inerme massa damnationis, possono riscattare se stesse ed ascendere alla salvezza, guidate dal seme spirituale posto da Sofia. Ed è proprio da tale affascinante dottrina che prende le mosse l’ultimo album targato Draconian, Under a Goddess Veil, laddove la figura divina celebrata è proprio Sofia.

Tale full-length viene licenziato a distanza di quasi cinque anni dal precedente Sovran; e se quest’ultimo era gravato dalla pesante eredità di Lisa Johansson, di cui la “neoassunta” vocalist Heike Langhans doveva dimostrarsi in qualche maniera degna, Under a Goddess Veil avrebbe dovuto sancire a suo modo il definitivo passaggio di consegne, smussando asperità, perfezionando incastri e modellando una sintesi che, conSovran -per quanto encomiabile – risultava probabilmente non del tutto compiuta. Anticipato da singoli che già facevano intuire quanto fossero decisivi i passi mossi in tal senso, Under a Goddess Veil giunge tra le mani degli ascoltatori come uno scrigno di ineluttabile bellezza. Ciò è percepibile sin dalla delicata opener Sorrow of Sofia, la cui sontuosa architettura poggia sulle prove vocali della Langhans e Anders Jacobsson, dialoganti su sottofondi musicali valorizzanti i rispettivi timbri: alla voce femminile è affidato il compito di spaziare su delicati fraseggi chitarristici o sugli archi, laddove il growl maschile spicca sulle sezioni ritmiche maggiormente sostenute. Nella successiva in cui la vocalist sperimenta maggiormente, imprimendo sfumature più cupe alla propria prova vocale, in accordo con l’andamento cinereo e solenne del brano, tra i cui slow tempo ritmici trovano spazio sfumature tastieristiche ieratiche. Particolarmente incisivi risultano qui i growl effettati e quasi sussurati di Jacobsson, dipingenti la caduta di Sofia (indicata con l’epiteto giudaico-greco Achamoth):

Soul Matter Spirit Desire

The Achamoth raped on the funeral pyre

Soul Matter Spirit Desire

Earth Wind Water and Fire

The Achamoth raped on the funeral pyre

Particolarmente degna di nota risulta inoltre Sleepwalkers, rilasciata in anticipo con un videoclip ad opera di Natalia Drepina – già autrice dell’artwork. L’immaginario dell’artista, prendente forma attraverso un bianco e nero di impatto, su scorci di un paesaggio brullo e gelido, ben si confà all’atmosfera del brano, in cui l’afflato quasi easy listening – sostanziato da un chorus accattivante e pervasivo – non intacca affatto l’incisività e la complessità della proposta. Inaspettatamente, in Under a Godless Veil trova posto persino uno spunto con diversi rimandi agli Ison, progetto collaterale della Langhans, a carattere etereo e quasi cosmico, per dir così: tutto ciò prende forma in Burial Fields, quasi esclusivamente affidata a synth rarefatti, una diafana sezione ritmica e, su tutto, una prestazione straordinaria della cantante.

Sarebbe sterile proseguire con un track by track, che in ogni caso non renderebbe affatto giustizia alla complessità ed alle molteplici sfumature di tale disco, la cui veste apparentemente maggiormente digeribile nasconde una trama raffinata ed elaborata, svelantesi soltanto dopo numerosi ed attenti ascolti, quasi alla stessa maniera, volendo utilizzare un’iperbole, in cui la verità nascosta del creato si disvela ai sethiani. Rispetto al precedente Sovran, dotato di un’andatura placida, i cui brani si susseguivano quasi senza soluzione di continuità, in Under a Goddess Veil troviamo una scrittura magmatica e palpitante, che rende le tracce ben distinguibili l’una dall’altra. Ed i Draconian conseguono tale esito non soltanto mediante un collaudato estro compositivo, figlio di una carriera senza pressoché falsi passi, bensì in particolar modo grazie all’influenza di Heike Langhans, protagonista sempre più consapevole e presente del full-length. Under a Goddess Veil rappresenta dunque non soltanto il compimento che i fan si aspettavamo, bensì un platter in grado di eccedere i loro desideri: uno scrigno di oscurità, insomma, che mai come questa volta rappresenta un dono.

 

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