Recensione: Underneath
“Let’s take a good look at you”- è con questa frase sussurrata in maniera inquietamente dalla voce di una bambina che ha inizio il malsano, caotico, distopico ma allo stesso tempo eccitante viaggio all’interno di un disco che ormai possiamo considerare seminale per il genere e che al tempo della sua release quattro anni fa ha estasiato critica e pubblico e ha persino regalato alla band di Pittsburgh una nomination ai Grammy, consacrando i Code Orange come una delle giovani band più interessanti della scena. Reduci dal successo del precedente Forever del 2017 (anch’esso disco di enorme valore e probabilmente l’album che ha fatto conoscere la band al mondo intero) con Underneath il five-piece statunitense vira verso un sound che è un’evoluzione dell’hardcore proposto nei precedenti due platter offrendo un sound che si arricchisce enormemente specialmente di caratteristiche sonore vicine all’industrial con tante sezioni elettroniche, ambient/noise e una deriva post-grunge/alternative metal in alcune delle sue tracce che spezza il ritmo forsennato e brutale delle composizioni più ancorate verso la matrice hardcore originaria della band.
La band a questo giro cambia produttore e da Kurt Ballou si passa a Nick Raskulinecz (Alice In Chains, Korn, Ghost) che insieme alla band forniscono un album che a livello sonoro rappresenta un assoluto godimento per i nostri padiglioni uditivi, dal suono cristallino e potente della batteria, agli effetti più sintetici ed elettronici, fino ad arrivare all’incredibile impatto abrasivo delle chitarre. La band è ormai matura e vogliosa di sperimentare nuovi lidi sonori mostrandoci davvero come quel moniker “kids” che i nostri avevano alla fine del nome “Code Orange” nei primissimi tempi sia ormai cosa superata per dei ragazzi che hanno ormai la stoffa di musicisti e artisti davvero completi. L’album come detto presenta una tracklist molto ben bilanciata che parte con delle sfuriate hardcore claustrofobiche e distruttive, pregne di effetti elettronici, “glitching” (una sequenza di piccolissime tracce audio di silenzio totale dalla durata di una frazione di secondo sparate una dopo l’altra che rendono il vibe di alcuni pezzi ancora più caotico) come Swallowing The Rabbit Whole o In Fear, mentre You And You Alone ha un intro batteristico che non può non ricordare vagamente quello di People=Shit degli Slipknot per un brano che riprende il vibe distruttivo proposto dalla band di Des Moines. Ma è proprio quando l’ascoltatore sembra quasi sopraffatto che subentrano brani come Who I Am che sfruttano le incredibili doti vocali di Reba Meyers, chitarrista e vocalist dotata di una voce abrasiva ma allo stesso tempo inquietante e con una tonalità che è molto più bassa rispetto a tante altre ragazze del panorama metal o rock. Lei si adatta perfettamente in quei brani tra il post-grunge e l’alternative metal che la band ama proporre in questo platter e che spesso per quanto ci riguarda rappresentano il fiore all’occhiello del disco. Pezzi come la già citata Who I Am con quell’intro enigmatico e spettrale, o la meravigliosa Sulfur Surrounding che presenta delle linee di chitarra meravigliosamente struggenti ed emotive, mantenendo allo stesso tempo il feeling cupo e inquietante del disco, o ancora il capolavoro Autumn and Carbine che presenta un ritornello che non può non entrare subito in testa; tutti questi sono brani posizionati in scaletta in maniera perfetta per spezzare il caos partorito dai brani più distruttivi e “hardcore oriented” cantati principalmente dal vocalist/batterista Jami Morgan. Facendo qualche esempio Who I Am cade dopo il distruttivo terzetto iniziale, mentre Sulfur Surrounding dopo il glaciale, inteso e caotico capolavoro industrial metal Cold.Metal.Place, mentre Autumn and Carbine dopo le violentissime Erasure Scan e Last Ones Left (forse proprio questi ultimi due pezzi per quanto ci riguarda rappresentano gli unici due momenti di leggero calo compositivo del platter). Le transizioni tra i brani e le sezioni puramente ambient/noise sono anch’esse un’esperienza sublime se si prende per esempio il bagno di suoni digitali che chiudono The Easy Way e sfociano in Erasure Scan donando un senso di continuità tra molte delle tracce e dandoci l’impressione che i ragazzi abbiano curato nei minimi dettagli ogni secondo di questo album e che davvero nulla sia stato lasciato al caso. La chiusura con la title-track rappresenta forse il momento più catchy del disco e un brano perfetto per introdurre un nuovo ascoltatore alla band con quel ritornello ipnotico ripetuto in maniera compulsiva da Reba e quel dualismo tra la voce della stessa chitarrista e quella del vocalist Jami che sintetizza perfettamente in un brano la natura abrasiva, criptica e caotica della band assieme a quei suo lato più accessibile .
Una chiusura perfetta per un disco curato nei minimi particolari che sfiora la perfezione in tanti aspetti, dall’ispirazione compositiva alla produzione, per un album ben bilanciato e che mischia l’anima industrial, quella hardcore, metalcore e quella alternative metal dei Code Orange per quarantasette minuti di assoluto caos distopico, atmosfere digitali futuristiche, ma soprattutto un disco che ascolto dopo ascolto nella sua incredibile ricchezza sonora dona all’ascoltatore nuovi stimoli e dettagli da scoprire. Molti potranno preferire il precedente Forever, più ancorato al sound hardcore “tradizionale” della band, ma certamente i Code Orange di Underneath sono una band che ci mostra una maturazione e una visione artistica fuori dal comune per un disco a dir poco splendido.