Recensione: Unextinct
A due settimane dall’uscita di “Fragments Of The Ageless” degli Skeletal Remains, la Century Media ci propone una nuova fatica in chiave death metal, questa volta, però, si tratta della sua dimensione più moderna, complessa e intricata e lo fa attraverso “Unextinct”, il quinto lavoro dei romani Hideous Divinity, realtà oramai affermata del death metal undergroud internazionale.
Dopo l’introduttiva e solo inizialmente rarefatta “Dust Settles On Humanity”, il primo singolo è una vera e propria dichiarazione di intenti: “The Numinous One”, con i suoi quasi 8 minuti è l’archetipo perfetto dello stile, dell’ambizione e del modo di intendere death metal degli Hideous Divinity: preparazione ed immediata deflagrazione, dove batteria, chitarra e basso si rincorrono in una cavalcata senza sosta, con le vocals di Enrico H. Di Lorenzo che dall’alto dominano. La forma canzone è molto lontana da quella classica, manca il crescendo standard strofa-bridge-ritornello, questo rende il brano sicuramente meno orecchiabile, ma lo arricchisce e dà la possibilità di aggiungere innumerevoli sfumature, sia strumentalmente (con molteplici assoli e vere e proprie fughe, per usare una terminologia classica), che vocalmente, grazie anche all’alternarsi perfetto di scream e growl. La produzione è moderna, i suoni compressi, con buona pace per chi è legato alla vecchia scuola. Tuttavia, è oggettivamente evidente il livello raggiunto dai Capitolini, ormai molto più che una promessa.
Come sempre quando si parla degli Hideous Divinity, ci troviamo davanti ad un concept album; dopo aver affrontato Carpenter, Herzog, Cronenberg e Lynch, questa volta lo sforzo è ambizioso, andando a prendere in esame molteplici aspetti dell’orrore e della paura, da un punto di vista non solo cinematografico, ma anche filosofico. La brutalità la fa da padrone in “Against The Sovereignty Of Mankind”, pezzo che dal vivo potrebbe trovare la sua sublimazione certamente e dove Enrico Schettino offre una delle sue migliori esibizioni a livello solistico, con tutta la band che sembra dare il meglio di sé. Assieme al chitarrista e al cantante, troviamo ancora (e fortunatamente) Stefano Franceschini al basso: i tre rimangono i capisaldi della band dopo svariati avvicendamenti, coadiuvati alla batteria da Davide Itri (ex Ade). Con “Atto Quarto, The Horror Paradox” ci troviamo nuovamente davanti ad una mini-suite: sfida notevole per quella che alla fine è una death metal band tout-court…In questo caso la band si prende il tempo per creare una completa esamina a 360° di tutti gli aspetti della musica estrema moderna: da momenti atmosferici a stacchi integralmente brutal, da episodi cadenzati a parti che flirtano con il black metal (cosa che si era già sentita in passato). Il tutto messo in pratica ottimamente e reso al meglio dal suono, meravigliosamente catturato ai 16th Cellar Studios di Stefano Morabito: profondo, corposo, dove l’estremo meccanicismo dell’approccio creativo degli Hideous Divinity riesce ad essere umanizzato. I testi non sono di immediata intellegibilità, tuttavia è palese come la band punti a descrivere l’inevitabilità del male e degli elementi che lo rendono ineluttabile. “Quasi Sentient” è più diretta e veloce, ma tutt’altro che semplice, essendo un coacervo di tecnica al servizio della brutalità. La band romana riesce ad essere progressiva nel senso stretto della parola, ossia attraverso l’utilizzo di tempi dispari e inconsueti, frequenti cambi di tempo, variazioni di intensità e velocità nel corso dello stesso pezzo. La cosa raggiunge quasi il parossismo in “More Than Many, Never One”, altro pezzo decisamente ambizioso, mentre “Mysterium Tremendum”, stand alone single uscito del 2023, mantiene le sue caratteristiche di pezzo a se stante, grazie ad una maggiore immediatezza e ricorda i tempi degli esordi.
“Unextinct” è un album completo, che dall’inizio alla fine impegna in un ascolto attento e necessita di molteplici passaggi per essere apprezzato appieno. Ma del resto sono questi allo stato attuale gli Hideous Divinity, capaci di declinare il concetto di modernità nel death metal in maniera del tutto personale: ci sono sicuramente influenze (che vanno a pescare dai nomi ormai classici come Nile e Hate Eternal fino ai nostri Hour Of Penance e ai primi Fleshgod Apocalypse), tuttavia c’è la certezza di poter affermare come il suono della band di Roma sia perfettamente codificato e riconoscibile, sinonimo quest’ultimo di grande personalità. C’è chi può storcere il naso davanti a produzioni compresse, contaminazioni blackened/death, chitarre a 7 corde e accordature lontano dallo standard, eppure se un genere deve sopravvivere nella sua primaria essenza, è necessario che possa svilupparsi in tutte le sue propaggini.
Vittorio Cafiero