Recensione: Unicursal

Di Fabrizio Figus - 20 Giugno 2024 - 11:55
Unicursal
Band: Nocturnus AD
Genere: Death 
Anno: 2024
Nazione:
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65

Quando nel 1990 uscì “The Key”, i Nocturnus entrarono all’istante nella leggenda del Metal estremo. La sperimentazione, l’ipertecnicismo, l’uso massiccio delle tastiere mai sentite prima d’ora in questo genere, e il fatto di aver prodotto un concept album che univa la fantascienza alla religione (anzi, l’anti-religione) all’interno del panorama Death Metal, furono tutti ingredienti che portarono, inevitabilmente, a creare un alone magico intorno al progetto di Mike Browning: mastermind, batterista e cantante della band (altra cosa inusuale). Se ne dicevano di tutti i colori. Una fra tutte, il fatto che i chitarristi del Nocturnus, per poter essere così veloci, si erano lacerati i legamenti della mano (mi viene da ridere solamente a scriverla questa cosa, visto che dovrebbe essere esattamente il contrario).

Ad ogni modo, il progetto fu una sorta di meteora dalla scia infinita perché, nonostante gli anni, le infinite peripezie legali e la tormentata ricerca d’espressione di Mike, il nome suscitava sempre una sorta di religiosa ammirazione.

Questi erano i Nocturnus e, sempre per mano del buon Browning, ancora oggi il suo progetto esiste benché il nome sia cambiato, per i soliti motivi di carattere legale, in Nocturnus AD.

Con quest’ultimo lavoro, Mike Browning prosegue la saga iniziata proprio con “The Key” e portata avanti con “Paradox”. Fortunatamente, a differenza del primo lavoro, che aveva una produzione ai limiti dell’ascoltabile e del secondo, il quale andava ad apportare delle sostanziali ma ancora insufficienti migliorie, questo “Unicursal” presenta, invece, dei suoni più che convincenti e un missaggio abbastanza calibrato.

L’atmosfera è sempre la stessa ma, stavolta, il fantascientifico va a mescolarsi con un senso di orrore cosmico lovecraftiano (come è chiaro nel video di “CephaloGod”, dove è presente un chiarissmo richiamo a Chtulhu e dove i nostri musicisti sembrano usciti da Innsmouth). Diciamo subito che la vera pecca di questo platter è la voce. Non è né growl né scream e sembra quasi la voce di un cantante che è alle prime armi con i timbri “cattivi”. Inoltre, la metrica è priva d’ispirazione, risultando a volte addirittura fastidiosa. Con l’andare del disco sembra anche peggiorare di brano in brano.

Il viaggio inizia con un’intro strumentale marziale alla quale segue, prepotente, una furiosa e velocissima “The Ascension Throne of Osiris”, brano dalle chitarre nervose e forsennate. La già citata “CephaloGod” parte con un incalzante ritmo per proseguire, poi, con figure musicali innestate che risultano un pochino forzate, come se fossero una sorta di patchwork di momenti compositivi differenti. La prima parte di “Mesolithic” è un ritmo tribale lungo ben 1 minuto e 53 secondi che ci porta ad un lisergico incrocio di chitarre deliranti. Il brano è, diciamo, la ballad del disco (se così possiamo dire). La parte prima delle strofe finali è paranoica, con un motivo che si ripete fino a far scoppiare l’ascoltatore di claustrofobia sonora. La pecca sta nell’assolo finale: a tratti fuori tempo e stonato in molti bending.

“Organism 46B” è un brano cadenzato nelle strofe, più semplice nella stesura ma, ahimé, abbastanza monotono. “Mission Malkuth”, dopo l’introduzione quasi onirica, appare come un brano, anche qui, privo di punti alti e con un assolo dagli sweep-picking riusciti veramente male, senza fluidità. “Yesod, The Dark Side of the Moon” è dotata di un bellissimo intermezzo strumentale, seguita da “Hod, the Stellar Light”. Passiamo, poi, all’ultimo vero brano del disco “Netzach, The Fire of Victory”, con un lungo finale lento e marcio. Terminiamo l’ascolto con “Outro”, una coda strumentale piuttoto d’effetto e cinematografica.

A conti fatti, questo “Unicursal” è un buon lavoro, suonato generalmente in maniera impeccabile, eccezion fatta per i punti menzionati. Torno a dire che il vero aspetto negativo è la voce di Browning che, davvero, ha abbassato di molto il mio giudizio su questo disco.

Il vero problema, a mio avviso, è che probabilmente ci si aspettava di campare di rendita con quell’alone magico e leggendario di cui ho parlato all’inizio ma, ai giorni nostri, dopo 34 anni dall’uscita di “The Key”, la musica Death Metal si è evoluta varcando confini a volte impensabili, proprio quei confini che Mike Browning ha contribuito a rendere accessibili. Si poteva fare di più, sicuramente, proprio grazie all’animo visionario e folle del nostro spaziale e mostruoso demiurgo, il quale avrebbe potuto creare ulteriori punti su cui far sorgere nuove colonne d’Ercole.

 

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