Recensione: Union of Flesh and Machine
Quando il nome non è tutto.
Død, per esempio. Al secolo Daniel Olaisen. Chitarrista. Di Kristiansand, Norvegia. Ormai considerato una leggenda per via della sua straordinaria carriera e per il fatto, soprattutto, di aver preso parte, agli inizi, niente di meno che ai Satyricon.
“Union of Flesh and Machine”, nono album della sua creatura Blood Red Throne. Una noia altrettanto straordinaria come il suo curruculum vitæ. Difficile assistere a un’involuzione del genere. La band, anni fa, non era affatto male. Piano piano, CD dopo CD, la discesa. Inarrestabile. Sino ad arrivare, almeno per il momento, a questo imperscrutabile lavoro.
Già, perché di “Union of Flesh and Machine” non se ne comprende assolutamente il senso. Dalla cover e dal titolo parrebbe un’opera incentrata sul cyber death metal. I terminator che campeggiano in copertina, vincitori di un’ipotetica battaglia uomo-macchina, ingannano, difatti: i Blood Red Throne suonano solo death metal. Nulla più. Certo. I riff del Nostro sono quadrati, massicci, iterativi. Come del resto il drumming di Freddy, meccanico e non-antropomorfo.
Il problema, tuttavia, s’individua subito nella tremenda carenza di personalità del sound, preso nel suo complesso. Sound che, malgrado qualche timido tentativo (‘Patriotic Hatred’) è, al contrario (degli intenti?), distante anni-luce dalle coordinate stilistiche che dipingono le linee portanti dell’anzidetto cyber death metal.
La spaventosa monotonia del growling di Bolt, poi, è la definitiva mazzata sul valore tecnico/artistico di “Union of Flesh and Machine”. Anche a volersi incapponire ad ascoltare con la massima attenzione e senso critico il platter, una dozzina di passaggi non basta per riuscire a distinguere le varie canzoni, praticamente uguali l’una all’altra: riffoni circolari, blast-beats impiantati su se stessi, mid-tempo a profusione, grugnito inchiodato sulla stessa tonalità da ‘Revocation of Humankind’ a ‘Mary Whispers of Death’ e… basta. No, si dimenticava: suono caotico, nell’accezione negativa del termine, e forma-canzone elementare, sempre uguale a se stessa.
Insomma, come se “Union of Flesh and Machine” fosse stato composto in fretta e furia sfruttando i cliché che tanto di moda vanno adesso (per esempio i terminator) per battere il ferro sin che è caldo. Un album senza capo né coda, quindi, raffazzonato. Senz’anima. Senza cuore.
Brutto, bruttissimo scivolone, per il buon Død.
Daniele D’Adamo