Recensione: United States Of Anarchy
Juan Garcia è stato un piccolo grande eroe dell’heavy metal negli anni ’80, militando in alcune formazioni che non hanno mai fatto il grande salto che ma che da più parti vengono ritenute seminali o comunque meritevoli di grande affetto da parte di molti metalheads, mi riferisco ad Agent Steel ed EvilDead, ed in misura minore agli Abattoir. Sapientemente queste band si differenziavano molto per lo stile che proponevano, permettendo a Garcia di svariare nella sua tavolozza di colori, mai sbiaditi. Gli EvilDead in particolare, oggetto di questa recensione, hanno pubblicato due gemme di enorme valore – perlomeno a parere di chi scrive – infiammando il volgere del decennio dagli ’80 ai ’90, un periodo indubbiamente incandescente per il genere thrash. Dopo un pregevolissimo EP nel 1989 (con l’unico difetto di essere troppo breve), intitolato come la cover dei Black Flag riportata in scaletta, “Rise Above“, lo stesso anno i californiani bombardano Los Angeles con “Annihilation Of Civilization“, un album semplicemente perfetto, a partire dall’irresistibile artwork del sempiterno Repka, fino ad un lotto di furiose canzoni all’insegna del thrashcore (quello di una volta, ovvero thrash metal “corrotto” dall’hardcore, non riff ultra groovosi, grondanti violenza a secchiate, poi spezzati da ritornelli iper melodici cantati con voce clean e lagnosa). Tempo due anni e gli EvilDead bissano con “The Underworld” che una parte di critica saluta come un gradino inferiore al capitolo precedente, ma che è comunque un lavoro enorme, sempre arrembante, per non dire inca**ato, alla maniera degli Evildead, ovvero tanta politica, istanze sociali, ribellione e thrash metal senza compromessi (ma con la chicca della estrosa cover degli Scorpions “He’s A Woman/She’s A Man“). Nel ’92 esce un mini live album (“Live… From The Depths Of The Underworld“) e poi gli EvilDead ce li perdiamo, spazzati via dallo zeitgeist e da chissà quali altre beghe.
Figuriamoci se non è una buona notizia scoprire che i nostri eroi hanno deciso di tornare in formazione pressoché originale (quella di “The Underworld“, che per altro differisce da quella di “Annihilation” solo per Medina al basso al posto di Sanchez) con un album nuovo di zecca, il qui presente “United States Of Anarchy“. Apparentemente nulla sembra cambiato; come detto, la formazione è quella, Repka ed i suoi strampalati personaggi ci sono, lo sfondo arancione che rimanda diretto a “The Underworld” pure, il clima da ultimo mondo cannibale anche. Del resto, con Trump come Presidente e le elezioni alle porte (“The Descending“), per gli EvilDead è una festa. Il titolo poi è un manifesto dello “Evildead pensiero”. E anarchia sia, premo play e mi metto il passamontagna da black block. Dopo 38 minuti posso tranquillamente togliermelo, non ce n’era nessun bisogno, sono passati 30 anni e, purtroppo per gli EvilDead, si sentono tutti. “United States Of Anarchy” pare una versione semplificata degli EvilDead ’89-’91. Per carità, esattamente come il sottoscritto, pure loro sono invecchiati e certi grovigli richiedono molto fiato, tendini e muscoli tonici, ma davvero questi sembrano gli EvilDead spiegati a un neofita. Lineari e di una semplicità sconfortante se paragonati all’urgenza belluina e ai contorcimenti nervosi dei dischi pubblicati in precedenza. Non c’è (più) groove, non c’è (quasi più) hardcore, non ci sono le ritmiche sbilenche, sono loro ma impoveriti di tutto. Rimane la carica insurrezionalista dei testi (fieramente anti politici, anti religiosi, anti tutto), rimangono le vocals di Flores, conservatosi in un discreto stato, rimane tutto il packaging simpatico, ma non rimangono granché le canzoni stavolta (che poi sarebbero la cosa più importante).
Su 9 tracce, 7 sono praticamente mid-tempos dall’inizio alla fine, una cosa impensabile per gli autori di “Annihilation” e “The Underworld“. Per non parlare poi della particolare bruttezza degli assoli. Si fa quasi fatica ad inserire l’album sotto l’etichetta “thrash metal”, d’accordo il sound è potente e grumoso, e capitano saltuari tup-tupa, ma ad essere onesti “U.S.O.A.” è sostanzialmente più un album di poderoso heavy metal americano che di thrash vero e proprio. Se non si è mai ascoltato quanto prodotto dai californiani in passato, neppure una singola nota, forse questo disco può anche lasciare una discreta (timida) impressione, ma verrebbe immantinente falcidiato dalla sovrapposizione con i “veri” album degli EvilDead, superiori sotto ogni aspetto agli Stati Uniti dell’Anarchia, credo persino nella produzione, poiché oggi le chitarre sono un filo troppo sature (o perlomeno tali erano nel promo che ho avuto a disposizione, può anche darsi che poi l’album effettivo suoni ulteriormente affinato). Ribadisco, non siamo al cospetto di un disco pessimo, ma abbastanza deludente si, poiché gli EvilDead hanno ampiamente dimostrato di detenere un potenziale infinitamente superiore a questo lotto di canzoni fiacche e spuntate. Spero si sia trattato solo di un passo propedeutico a togliersi la ruggine di dosso e che magari già con il futuro album si torni a “mangiare fulmini e cacare saette” (come diceva chi se ne intendeva di purosangue).
Marco Tripodi