Recensione: United World Rebellion – Chapter One
Poche band possono affermare di aver suscitato nel tempo giudizi contradditori come quelli al centro dei quali si trovano, da sempre, gli Skid Row. Un’ampia fetta del loro uditorio li considera finiti già dal 1991, all’indomani dell’uscita dello splendido “Slave To The Grind”, ben pochi si sono presi la briga di ascoltare con la dovuta attenzione il sottovalutatissimo “Subhuman Race” e ancor meno sono coloro che hanno preso realmente in considerazione gli album del post – Bach. Già, perché nonostante le canzoni fossero (e siano tuttora) in buona parte opera del tandem Bolan – Sabo, Sebastian Bach era, a tutti gli effetti, l’uomo immagine della band, con i suoi lunghi capelli biondi, il fascino ribelle e quella voce pazzesca, capace di acuti imprendibili quanto di screaming che laceravano l’anima.
Possibile, tuttavia, che bastasse il cambio dietro al microfono per giustificare l’abbandono da parte dei fan e l’automatica condanna di qualsiasi disco “apocrifo”? Sì e no: la pregiudiziale nei confronti di qualsiasi cantante cui sia toccato l’ingrato compito di sostituire icone come Bruce Dickinson, Michael Kiske, Ian Gillan e il biondo Seb è, da sempre, un dato di fatto, tuttavia gli Skidz superstiti ci misero indubbiamente del loro, proponendo canzoni di qualità sinceramente inferiore rispetto al passato, quando non addirittura pessime (un titolo per tutte: “Born A Beggar” da “Thickskin“). Nonostante tutto, il loro peccato più grande fu probabilmente quello di voler mettere per forza da parte quell’identità in termini di sound che li aveva contraddistinti fino a “Subhuman Race” compreso, in favore di tentazioni talora moderniste/industrialoidi (“Thickskin”) e talora più affini al punk/rock melodico (“Revolutions Per Minute”) ottenendo risultati alterni.
La notizia, ascoltando “United World Rebellion – Chapter One”, è che gli Skid Row del 2013 hanno ritrovato sé stessi e le proprie radici smettendo, nel contempo, di farsi terrorizzare dai fantasmi del passato. Le cinque canzoni che compongono questo mini (scelta discutibile ma sulla quale Scotti Hill ha dato motivazioni quantomeno comprensibili in sede d’intervista) ci mostrano una band tonica, matura e sicura di sé e dei propri mezzi, in grado di rievocare le atmosfere dei primi due album senza tuttavia perdere l’inevitabile confronto.
I vari pezzi occhieggiano qui e là tanto al granitico “Slave To The Grind” quanto al più melodico e rockeggiante debut album, eppure non si ha l’impressione di una rievocazione forzata e tutto sommato posticcia. Ogni pezzo ha una propria identità, buone idee a livello di riffing e melodie di spessore ad opera di un Johnny Solinger decisamente in palla, finalmente per nulla intimorito dal confronto con l’ingombrante predecessore e, anzi, talmente lanciato da andare a contrattaccarlo sui suoi stessi territori, tirando fuori dal cappello a cilindro qualche urlaccio di scuola bach-iana davvero efficace. Inoltre, dopo aver tessuto le lodi della ritrovata ispirazione in fase di scrittura da parte di “Snake” Sabo e Rachel Bolan e dell’ottima prestazione di Solinger al microfono, vale la pena citare anche il notevole contributo in fase ritmica del nuovo batterista Rob Hammersmith, indicato da Scotti Hill come uno degli artefici di questa versione 2.0 degli Skid Row: il suo drumming è, in effetti, decisamente carico quanto dinamico e il risultato complessivo conferisce ai vari pezzi un grande tiro.
Difficile trovare un unico punto di forza all’interno di una tracklist tanto breve quanto omogenea. Quattro brani su cinque fanno dell’impatto, della compattezza e della velocità i loro fiori all’occhiello, risultando sostanzialmente equivalenti in termini di resa; mentre la ballad posta a metà scaletta strizza l’occhio in più d’un’occasione alla leggendaria “I Remember You” perdendo, ovviamente, il confronto eppur uscendone a testa alta. Che altro dire, se non «Bentornati Skid Row!”?
Stefano Burini
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