Recensione: Universe
Come spesso accade, quando qualcosa arriva dalla Nuova Zelanda non mostra mai i contorni dell’ovvietà. Sarà la lontananza dai centri nevralgici del metal, sarà la mescolanza di etnie che mischia pure il DNA musicale, sarà l’aria che circola nell’emisfero australe. Chi lo sa. Quel che è certo, invece, è che i Monsterworks (‘kiwi’ trasferitisi a Londra) rappresentano una singolarità non trascurabile nel panorama death internazionale.
Peraltro forti di una lunga e feconda carriera iniziata nel lontano 1996 segnata profondamente un produzione discografica comprendente da due demo (“Dormant”, 1998; “Delusions Of Grandeur”, 1999), due EP (“Man :: Instincts”, 2012; “Man :: Intrinsic”, 2012) e ben nove full-length (“Dimensional Urgency”, 2000; “Rogue”, 2002; “M-Theory”, 2003; “The Precautionary Principle”, 2006; “Spacial Operations”, 2007; “Singularity”, 2009; “The God Album”, 2011; “Earth”, 2013; “Universe”, 2014).
Proprio quest’ultimo lavoro, “Universe”, chiude anzi apre il discorso cominciato con “Earth” in merito al circolo della vita e della morte, investigando in maniera più estesa sulle origini dell’Universo e sui suoi cicli vitali dall’incommensurabile ampiezza temporale. Un tema che si proietta a mo’ di stampa sulla musica, il cui ritmo sembra dilatarsi all’infinito nel tempo, appunto, ma anche nello spazio. I Monsterworks sono ruvidi, pragmatici e a volte addirittura brutali. Il loro death è tutt’altro che inquadrabile entro confini conosciuti, talmente sono tante e indecifrabili le influenze che lo contaminano (hard rock, rock psichedelico, stoner, prog, …). Talmente tanto che è lecito porsi la domanda sul genere suonato dai Nostri. Sì, certo, Jono Blade ‘growleggia’ (ma pure ‘screameggia’) tanto e bene, tuttavia ciò da solo non basta a fare dei Nostri dei deathster. E, tutto sommato, nemmeno lo sono. Però, il metal di “Universe” si presenta duro, riottoso, scevro da abbellimenti, privo di particolari melodie. A tratti pure devastante, quando per esempio James fora la barriera del suono con i suoi blast-beats (“Universe”, “The Bridge”). Un metal estremo, insomma, che ben si accosta alle sperimentazioni più azzardate che avvengono, guarda caso, proprio nel campo del death.
Malgrado tutte le buone intenzioni del combo di Palmerston North, spiace dirlo, “Universe” dà l’idea di essere riuscito solo a metà. Soprattutto per quella che riguarda il concept e le liriche, assolutamente coinvolgenti e ricche di pathos. La musica in sé, al contrario, tende a sfilacciarsi eccessivamente nel lungo viaggio fra stelle, pianeti, galassie e buchi neri. Non è la durata del platter, a essere… ‘sbagliata’ (quarantun minuti), quanto quella dei singoli brani. Perlomeno, rapportata alla quantità delle idee e soluzioni avvincenti presenti in ciascuno di esso. Una ‘densità di piacere’ un po’ scarsa che, come accade matematicamente in questi casi, porta piuttosto rapidamente alla noia. Complice, inoltre, la tendenza dell’ensemble a divagare eccessivamente dal tema centrale delle song, alla fine davvero difficili da mettere assieme pezzo a pezzo; quasi fossero dei rompicapi irrisolvibili.
Tutto questo sa di peccato, poiché i Monsterworks hanno dalla loro parecchie qualità come l’esperienza, la perizia tecnica, la personalità, la visionarietà. Manca, loro, la bacchetta magica per rendere il disco memorabile. Il dono del ‘buon songwriting’, insomma. Sembra un dettaglio negativo da poco conto se accompagnato da tali altre virtù ma, da solo, le vanifica inesorabilmente tutte.
Daniele “dani66” D’Adamo
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