Recensione: Universe
E ora qualcosa di completamente diverso…. (cit.), infatti è l’ora dei canadesi Dead Brain Cells, in circolazione dal 1986, anno della loro fondazione e già con un album pubblicato l’anno dopo, l’omonimo “Dead Brain Cells” (ecco spiegato l’acronimo). Collocati nel calderone del thrash/speed con influenze hardcore, vuoi per la velocità, vuoi per lo spirito crossover (magliette di RUN DMC e Public Enemy si sprecavano), vuoi per i testi, ai DBC vengono sovente associati nomi del calibro di Nuclear Assault, Cryptic Slaughter e Voivod, quest’ultimi un po’ per la stessa provenienza geografica (il Quebec), un po’ perché l’evoluzione stilistica del Voivoda assomiglia parecchio a quella delle Cellule. Basti pensare che “Universe“, il secondo album dei DBC viene sistematicamente accostato a “Nothingface“, come ne fosse una diretta emanazione, una filiazione tanto ovvia quanto matematica, ma i due album escono in contemporanea, quindi è facile pensare che sì, le band magari abbiano persino condiviso palchi e locali, si siano influenzate a vicenda, ma certo non si può sentenziare che i DBC si siano limitati a fare copia/incolla dei Voivod, dando per scontato che la band più importante abbia soggiogato e catechizzato i cugini “minori”.
“Universe” arriva davvero a sparigliare le carte, un lavoro sorprendente, inaspettato e del tutto avulso da schemi coevi, esattamente come “Nothingface“, pur essendo una coerente e naturale evoluzione della personalità dei Dead Brain Cells, che non fanno altro che limare, raffinare, cesellare e arricchire ancora di più la loro proposta di base, rendendola più cerebrale, adulta, intellettuale e matura. Non un disco per tutti. Un po’ come accaduto al tempo dell’ondata brasiliana della Cogumelo Records, quando i Sepultura fecero un balzo in avanti rispetto a tutti i compagni di strada carioca, affermandosi come la band brasiliana per eccellenza e surclassando qualsiasi concorrente connazionale, nonostante nel sottobosco ci fossero realtà di tutto rispetto come Korzus, Dorsal Arlantica, Ratos De Porao, etc. I Voivod hanno finito col rubare la scena a tutti (in Canada e oltre) ed i Dead Brain Cells sono piombati nel dimenticatoio, pur avendo tra le mani un album fantastico come “Universe“. Quando fai la cosa giusta, nel posto giusto, al momento sbagliato. Se solo i Dead Brain Cells avessero pubblicato il loro capolavoro appena un anno prima, forse i libri di storia del metal oggi ospiterebbero pagine diverse. “What if….” – con i se ed i ma non si fa la storia, ma si può fare la scienza, quella che fanno i DBC con le loro dieci tracce, una puntata di Quark condensata in appena 37 minuti. Altra freccia all’arco di questo album, una capacità di sintesi mostruosa, l’eccellenza condensata in una durata morigerata, senza strafare, senza sbrodolare, senza tirarla per le lunghe, intensità e qualità, non quantità. Una lezione che molte band, anche pregevolissime, troppo spesso dimenticano.
Tutto ha inizio con la Genesi, il Big Bang, dunque l’esplosione della creazione (“The Genesis Explosion“), traccia manifesto che raccoglie ed assomma in sé tutta la cifra stilistica che ascolteremo nei successivi minuti. Una cornice strumentale sopraffina, originale, elaborata, fatta di stratificazioni senza soluzione di continuità; un serpeggiare di note convulso ed affastellato ma mai privo di logica o direzione, semplicemente poliedrico, multiforme, complesso da seguire. Pare davvero di assistere allo spettacolo della prima materia informe che si aggroviglia su se stessa, collassa, implode e dà origine a nuove forme, nuove strutture, nuovi universi, lo spettacolo dell’origine del tutto, orchestrato ed ammaestrato sapientemente dai Dead Brain Cells. Colpisce da subito il particolarissimo uso della voce, che si colloca a metà strada tra il cantato ed il recitato/parlato, come è giusto che sia, trattandosi di una sorta di divulgazione scientifica messa in musica. La voce è effettata, raddoppiata; scandisce, annuncia e descrive la visione della genesi nel suo momento più alto e significativo. Non ci sono sfumature religiose (né antireligiose), solo la mera illustrazione di ciò che accade, cronaca chimica e fisica (massa, fotoni, radiazioni, atomi, galassie). Da quel momento in poi iniziano le montagne russe dell’espansione a catena; passo dopo passo ogni cosa si conforma, prende forma (“Heliosphere“), eliosfera, gravità, stelle, fusioni nucleari, fino alla messa fuoco di un granello di sabbia nello specifico, il Sistema Solare, ed all’interno di esso, il pianeta in grado di ospitare la vita, la Terra.
Eccoci ai “primordi” (“Primordium” è un pezzo nel quale la consonanza con i Voivod è davvero fortissima, e l’interpretazione di Phil Dakin al microfono si fa, se possibile, ancora più peculiare), durante i quali la morfologia terrestre si prepara e si dispone alla nascita della prima goccia di vita. Dapprima vi è l’avvento dei giganti (“Exit The Giants“), che siano incommensurabili catene montuose e vastissimi oceani o che siano possenti creature alte come grattacieli (i dinosauri). Poi, un attimo dopo, è la volta dell’uomo (“The Rise Of Man“). Chi è costui, da dove viene e chi lo ha incoronato per dominare il pianeta? Un onore sancito dal destino, una gloria che i DBC celebrano e ratificano con la propria opera d’arte, non senza prefigurare foschi scenari futuri (“Once man’s preoccupation / With survival had diminished / He could concentrate on destroying / What four billion years or chance had created… Himself“). Così si conclude quella che è la sola facciata A (“Universe” viene pubblicato al tempo dei vinili), già di per sé pregna e generosissima di spunti, musica, materiale. Siamo appena a metà strada, in fin dei conti sono trascorsi appena 19 minuti, eppure sembra di aver preparato un esame di laurea.
“Estuary” decanta l’importanza dell’acqua e la convivenza tra essa e l’uomo, i cui frutti hanno portato alla vita, allo sviluppo e alla civiltà. L’umanità è al suo stadio iniziale, è il bambino di se stessa (“Humanity’s Child“), le potenzialità sono infinite, i pericoli e le minacce pure. “Phoibos And Deimos” è la chiave di volta, l’avvento del potere, dell’avidità, della violenza. Guerra come mezzo di espansione ed acquisizione. L’uomo è al bivio, alla soglia (“Threshold“) che decide se la sua curva esistenziale sarà ascendente o discendente, se si sublimerà come una creatura divina e superiore o se si inabisserà verso l’autodistruzione. “Universe” chiude con una nota di speranza benaugurante, l’umanità ha forse compreso che deve cambiare il proprio destino e questo va nella direzione di abbattere i confini, guardando verso lo spazio. E’ tempo di lasciare la Terra e viaggiare verso l’infinito (“Infinite Universe“), verso le stelle, la prosperità, le galassie, la nostra naturale eredità.
Tutto questo, come detto, avviene nello spazio di appena 37 minuti, nei quali ogni istante è una scoperta, uno stravolgimento, un capovolgimento di fronte, nei quali quando pare di rimanere soffocati da una densità troppo oprimente, improvvisamente un riff squarcia l’antimateria creata dagli strumenti dei DBC e ci proietta altrove, ad anni luce di distanza, pronti per osservare un altro spettacolo della Natura, un’altra evoluzione, un’altra estasi cosmica. Grovigli chitarristici, assoli fiammeggianti, partiture ritmiche mai statiche, un narratore la cui voce sembra provenire dalla profondità più remote e irraggiungibili dello spazio, “Universe” è un album ineguagliato, tanto dai suoi creatori quanto dall’ambiente musicale che lo ha prodotto. Un album thrash, intimamente progressive pur senza fondamentalmente esserlo, un’espressione di ingegno che lascia attoniti (e appagati) ancora oggi, trenta anni dopo. Nel 2002 per Galy Records uscirà “Unreleased“, raccolta di materiale inedito, appunto, che avrebbe potuto costituire il seguito di “Universe“, all’epoca fatto circolare da Combat Records in un numero limitato di 100 cassette demotape. Ascoltandolo risulta perfettamente chiaro perché non avrebbe avuto alcun senso pubblicarlo all’indomani di “Universe“. Allacciate le cinture, scegliete il posto accanto all’oblò e buon viaggio.
Marco Tripodi