Recensione: Universe
Un titolo evocativo ed un artwork di buon impatto visivo, rappresentano il primo importante biglietto da visita di questo interessante “Universe”, secondo coraggioso album confezionato dagli americani Edge Of Paradise.
I buoni risultati ottenuti con l’esordio “Immortal Waltz” (prodotto dal ben noto Michael Wagner e uscito nel 2015, sotto l’egidia della Pure Rock Records), hanno attirato le attenzioni della nostrana ed importante Frontiers Music che, captato il potenziale della band a stelle e strisce, si è immediatamente prodigata per la distribuzione del nuovo album.
Forte della solita grande produzione che, da sempre, contraddistingue le uscite targate Frontiers Music, “Universe” si presenta come un album musicalmente compatto ed ispirato, che ha il proprio punto di forza primario nella energica e suadente voce della bella Margarita Monet, la quale risulta essere perfettamente a suo agio nel dar vita alle intriganti trame melodiche che caratterizzano l’opera fin dai primi istanti della potente “Fire”, opener ottimamente strutturata ed in perenne equilibrio fra la potenza sprigionata dalle due chitarre e l’anima più puramente melodica, dipinta da un sapiente operato tastieristico, sempre suggestivo e mai invadente.
L’ugola magnetica ed elegante della Monet domina l’atmosfera fantascientifica della breve ed ipnotica “Electrify”, seguita poi a ruota dalla ricercata title track, abilmente costruita su di una robusta intelaiatura metallica, rifinita da squisiti inserti elettronici, volti a creare un dinamismo spaziale tanto inaspettato quanto assai accattivante.
Un senso di rabbiosa solitudine emerge poi nella gelida “Alone”, ancora ben divisa fra spietate sonorità metalliche e momenti di puro romanticismo gotico evidenziati dall’interpretazione carica di pathos della vocalist.
Come un fiume in piena, la creatività degli Edge Of Paradise continua a fluire libera da ogni vincolo, regalando momenti di pura adrenalina: è questo il caso della movimentata “Hollow”, alla quale segue la più introspettiva e teatrale “World”.
È palese come il combo americano si diverta a cambiare pelle ad ogni brano, mantenendo comunque ben visibile la propria personalità: è il caso di “Perfect Disaster” che, abbandonando le sonorità plumbee e teatrali del brano precedente, torna a fendere l’aria a colpi di un Rock moderno e piacevole. In questo particolare frangente il refrain non risulta troppo incisivo, cedendo il passo alla bravura del gruppo nell’allestire un break strumentale breve ma sufficientemente efficace.
Il binomio fra Hard Rock ed elettronica convince anche nella seguente “Face Of Fear”, contraddistinta questa volta da uno schema melodico indubbiamente migliore tale da permettere al disco di procedere con agilità anche nella successiva “Stars”, più spensierata e ruffiana, con un’impostazione melodica che, in alcuni momenti può ricordare le venature moderne adottate dagli svedesi Europe nel loro “Secret Society” (2006).
A stupire è poi l’inaspettata aggressività di “Burn The Sun”, brano che mostra l’anima più Heavy del gruppo americano e, proprio come una violenta e secca rasoiata, arriva a concludere in modo diretto e (curiosamente) strumentale un album veramente notevole e condito di tante intriganti sfumature.