Recensione: Unreal
Tornano dal lontano passato i teutonici Czakan, proponendo, con tanto di line up originale, il nuovo album intitolato “Unreal”. Sono passati ben trentaquattro anni dal platter d’esordio “State of Confusion” (1989), recentemente ri-resuscitato (febbraio 2023) da Pride & Joy Music, che tenta con consumata strategia di piazzare – quasi in simultanea – l’intera discografia del gruppo.
Il ritorno sulle scene, che forse ha lasciato interdetta la stessa band, giustifica pienamente il titolo dell’album e la sua grafica, che presenta le prime due lettere depennate.
La galassia rock tedesca ci ha, invero, offerto altre “anomalie spazio-temporali” di questo genere.
Sebbene il record del maggior numero di anni tra la pubblicazione di due album inediti è al momento detenuto, per quanto mi risulti, dai Fargo di Peter Ladwig e Peter Knorn (Victory), che hanno mantenuto in trepidante attesa i propri fan per trentasei anni, la circostanza è comunque degna di nota.
Per nulla arrugginiti dall’impietoso passare del tempo, i Czakan, composti da Michael Schennach alla voce, Oliver Güttinger alla chitarra, Tom Fein alle tastiere, Randy Arcachon alla batteria e Frank Schrafft al basso, offrono una prova dignitosa.
La band, che ha inteso aggiornare il proprio sound hard’n’heavy con una generosa apertura alle melodie di stampo AOR, risulta in più di una occasione efficace.
La scaletta, tutt’altro che scarna, si compone di ben quattordici pezzi e si lascia ascoltare volentieri per tutta la sua durata, riuscendo a creare, in alcuni episodi, sincero interesse.
Parecchi dei brani risultano decisamente ispirati da sonorità di gruppi già di notorietà internazionale all’epoca del loro debutto. Sta ai gusti di chi ascolta stabilire se questo costituisce un punto di forza o un limite dell’album.
Altre tracce, invece, frutto di una maggiore ricerca e impegno nella fase compositiva, attraggono inevitabilmente l’attenzione per freschezza e energia.
È il caso del brano di apertura di Unreal intitolato “Free Line”, dalle sonorità decisamente familiari agli amanti della produzione del genere targata anni ‘80, ma cionondimeno assolutamente godibile, o di “Breaking all the Rules” che vede, nei cori, la partecipazione della cantante caraibica Lorenza Maluku e un assolo di chitarra davvero niente male.
Tra i punti più alti dell’album inserisco “Burns Like a Fire”, un brano che sembra eseguito da una versione invasata dei Fleetwood Mac, “Get Down” e “My Sweet Love”, che sprizzano vigore da tutti i pori.
Menzione particolare per la sei corde. Güttinger, che risulta essere sempre sul pezzo, sforna uno dietro l’altro assoli che finiscono addirittura per surclassare alcune delle canzoni nelle quali sono inseriti.
“Unreal” offre l’occasione per (ri)scoprire una band di buon livello che, affacciatasi sul mercato alla vigilia del terremoto grunge, ha visto le proprie attitudini perdersi nelle sabbie del tempo come (per dirla con le parole del replicante Roy Batty nel film “Blade Runner”) “lacrime nella pioggia”.
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