Recensione: Unsigned 2.0

Di Stefano Burini - 3 Agosto 2013 - 13:12
Unsigned 2.0
Band: Cream Pie
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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72

Fare dello street/glam metal nel 2013 e non risultare stantii né banali follower? Non è facile, ma nemmeno impossibile e il nuovo EP dei die hard rocker meneghini Cream Pie (da non confondere con gli omonimi capitolini) è lì a dimostrarlo.
 
La storia della band milanese è costellata di cambi di line up e di demo, EP ed LP usciti durante gli ultimi sei-sette anni per pura volontà dei musicisti, senza alcun sostegno da parte di etichette discografiche anche di nicchia. Un percorso accidentato che ha portato, ad ogni modo, il gruppo ad arrivare al’attuale formazione composta di cinque elementi, come da schema “classico” dell’hard ‘n’ heavy ottantiano, con Rachel O’Neill alla voce, Nikki Dick e Phantom alle chitarre, Michael Drake al basso e Brian Kent alla batteria. 
 
Ad un primo approccio gli sgargianti pseudonimi parrebbero lasciare poco all’immaginazione in merito al contenuto di “Unsigned 2.0”, configurandolo come un altro capitolo celebrativo della Los Angeles dei tardi 80’s, con tutto il suo bagaglio di decadenti eccessi e vizioso furore. Non siamo di certo fuori strada, tuttavia rispetto ad altre band europee emergenti, decisamente più orientate verso il lato “glam” di questo (sotto) genere (vedasi BarbarossaStraße e Jolly Joker), un più attento ascolto rivelerà la grande predilezione del quintetto milanese per il suo lato più ruvido e heavy/rockettaro. Più Guns N’ Roses e Skid Row con le loro chitarre roventi e i ritmi forsennati, dunque, più che i Mötley Crüe e il loro glam metallizzato.
 
Le sei (più una, ottima, bonus track) si dividono tra brani veloci e scatenati in cui i Cream Pie si dilettano nel ripercorrere sentieri già battuti dai gruppi precedentemente citati e altri più ragionati dai cui solchi emerge una profondità di songwriting talvolta davvero notevole. Nella prima categoria possiamo certamente inserire l’iniziale “Tiger”, una sorta di (riuscito) remake della mitica “You Could Be Mine”, la successiva “See Ya Later”, a metà strada tra i Mötley Crüe di “Live Wire” e i Guns di “It’s So Easy” e, ancora, la terza in scaletta, “The Evil Inside”, sulla scia dei penultimi Hardcore Superstar
 
Pezzi più che buoni insomma anche se forse fin troppo debitori dei grandi del passato per riuscire a camminare con disinvoltura sulle proprie gambe. Dalla track numero quattro in avanti la musica cambia leggermente mostrando ottime qualità compositive oltre che le già testate capacità tecniche e competenze in materia. “Such A Psycho” è puro rock decadente, inaugurato da chitarre blande e da vocals sommesse in attesa di un crescendo strumentale ed emozionale davvero notevole, nel quale Rachel O’Neill mette in mostra la propria versatilità canora andando a sfidare sul suo terreno e senza alcun timore reverenziale nientemeno che il vecchio Axl Rose. “No Love Remains” è una power ballad in cui si distinguono di nuovo la voce e le due chitarre, ma il vero gioiello è la spettacolare “Bad Habits”: ritmica al cardiopalma, talk box e un Rachel O’Neill davvero sbalorditivo per un brano tosto e rabbioso, degno dei migliori Skid Row.
 
Chiude in bellezza la bonus track “Missin’ You”, non il lento che sarebbe forse lecito aspettarsi dato il titolo, quanto piuttosto una sorta di street ‘n’ roll alticcio e ciondolante con qualche retaggio di marca ZZ Top, decisamente divertente e in grado di conferire varietà alla tracklist già tutt’altro che monotona.
 
Il debito di ispirazione nei confronti di nomi storici del firmamento hard rock statunitense di trent’anni or sono è evidente e per nulla nascosto, tuttavia tra le note di una proposta certamente derivativa è possibile ravvisare i numerosi punti di forza precedentemente elencati. Le canzoni più personali (“Such A Psycho”, “Bad Habits” e “Missin’ You”) sono, non a caso, anche le migliori: segno inequivocabile delle potenzialità di una band che conosce e maneggia a dovere la materia ma che non deve mostrare paura alcuna nell’affrancarsi dal solco dei predecessori. La strada giusta è lì, a portata di plettro, il prossimo album potrebbe riservare grandi sorprese.

Stefano Burini

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