Recensione: Until The Stars Won’t Fall
Professionisti di discreta esperienza, maturata in quattordici anni di attività, i Mourn in Silence sono uno dei nomi più promettenti in ambito gothic nel nostro Paese. Nati a Imola nel 1997, i ragazzi sono riusciti a raccogliere il favore della critica e del pubblico grazie a ‘Light in Misery’, full-length uscito nell’ormai lontano 2001, al quale ha fatto seguito, due anni più tardi, l’EP ‘Redemption’. Dopo un silenzio durato ben 9 anni, i Nostri tornano a calcare le scene musicali nel 2012, con ‘Until the Stars Won’t Fall’, primo prodotto nato sotto l’ala protettrice della casa discografica Controcorrente records.
Prima di analizzare con attenzione il disco nel particolare, è doveroso fare un passo indietro e cercare di capire cosa suonino questi Mourn in Silence. La band è dedita, sin dai suoi esordi, a un genere piuttosto ricco di sfaccettature, che parte da una base tipicamente melodic black metal, sulla quale si innestano passaggi che partendo dal melodic death, arrivano al power e al symphonic metal, il tutto condito da atmosfere dal forte sapore gothic. Ascoltando ‘Until the Stars Won’t Fall’, difatti, non si farà molta fatica a scorgere richiami ai grandi nomi del black e al gothic più elaborato, quali Cradle of Filth e Dimmu Borgir, così come evidenti risultano essere i richiami a realtà quali Children of Bodom, Kalmah e simili. Ad un ascolto preliminare si rimane colpiti dall’abilità con la quale il combo riesce ad affrontare anche i passaggi più complessi e articolati: la grande sicurezza con la quale i Nostri maneggiano gli strumenti denota una completa maturità raggiunta sotto il profilo tecnico.
Ciò che lascia un po’ perplessi, al contrario, è il songwriting: nonostante formalmente perfette, le canzoni suonano spesso troppo manieristiche e debitrici nei confronti dei grandi nomi. Le melodie, pur nella loro innegabile gradevolezza, in più di un passaggio sanno terribilmente di già sentito, pur senza scadere mai nel mero plagio.
Ecco, quindi, dove questo ‘Until the Stars Won’t Fall’ mostra maggiormente i suoi limiti: nella personalità pressoché latente. Ne sono esempi lampanti brani quali ‘Beginning of Ruin’, che richiama troppo alla mente i già citati Cradle of Filth, piuttosto che ‘Heart of Madness’, chiaramente ‘ispirata’ dalle gesta di Alexi Lahio e soci. Sulla stessa scia si muove anche ‘Severance’, che non avrebbe affatto sfigurato nella tracklist di un ‘Hatebreeder’ piuttosto che di un ‘Something Wild’. A conti fatti, gli unici pezzi che lasciano veramente traccia di sé sono ‘Winter’s Breath’, irresistibile nel suo incedere fiero e combattivo, il toccante interludio recitato ‘Un lacrimoso rivo’ e la conclusiva ‘Until the Stars Won’t Fall’, che pur richiamando alla mente quanto già fatto da band quali Theatre of Tragedy e i primi Tristania, riesce comunque a lasciare il segno.
A completare il ‘pacchetto’, ci pensano una qualità di registrazione più che dignitosa, che lascia l’adeguato spazio ad ogni musicista e dei testi, questi sì, davvero curati e di grande effetto.
Pur raggiungendo dunque la sufficienza piena, ‘Until the Stars Won’t Fall’ si dimostra incapace di imprimersi davvero nella mente dell’ascoltatore. Ma niente panico: la bandè affiatata, le capacità tecniche sono di primissimo ordine, si tratta solo di aggiustare un poco il tiro e di trovare una via più personale. Per il resto, la strada sarà tutta in discesa.