Recensione: Unto The Locust
Cosa abbastanza rara in casa Roadrunner, sono passati più di quattro anni dal precedente lavoro targato Machine Head, “The Blackening”. Quattro anni di molteplici tournée intorno al globo, quattro anni di pausa in seguito all’uscita di uno degli ultimi ‘classici’ dell’heavy metal moderno, tanto che su queste stesse pagine era stato immediatamente inserito nella relativa sezione, caso assolutamente unico.
All’uscita di un nuovo album, schiacciare il tasto play del lettore, in questi casi, pone l’ascoltatore in uno stato di estrema curiosità mista ad eccitazione, mentre chi recensisce si trova con la spada di Damocle del confronto con il passato sopra la testa. Fortunatamente, esistono grandi professionisti nel mondo della musica. Meglio, grandi artisti che sanno aspettare il tempo debito e l’opportuna ispirazione prima di mettere a disposizione del pubblico le loro nuove creazioni. E i Machine Head, da diversi anni a questa parte, fanno parte di questo tipo di musicisti.
Dall’entrata di Phil Demmel alla chitarra, i Nostri non hanno tardato nel trovare la giusta quadratura del cerchio: già l’esordio di questa nuova formazione, “Through The Ashes Of Empires”, aveva mostrato i lati positivi di questo ingresso, poi con il già menzionato “The Blackening” era stata l’apoteosi. Tutto merito del nuovo chitarrista? Almeno in parte. Con una base ritmica affidabile ed affiatata, Robb Flynn, frontman e leader indiscusso della band, sembra aver trovato una favolosa alchimia assieme al suo antico compagno d’armi dei tempi dei bay-area thrashers Vio-Lence: tanto che il tiro, l’ispirazione e l’energia sono ancora oggi quelli dei migliori momenti dei vari “Eternal Nightmare” e “Oppressing The Masses”.
“Unto The Locust” è quindi tutto fuorché un ritorno sulle scene di mera ordinanza: nulla di scontato, un songwriting estremamente pensato, dove impatto e tecnica si uniscono in una sinergia assolutamente vincente. Soltanto l’opener è sufficiente a dimostrare ancora una volta come il quartetto di Oakland punti oramai a scrivere pezzi ‘totali’. “I Am Hell”, infatti, è una sonata di oltre otto minuti divisa in tre parti; un breve canto a cappella introduce un apocalittico incedere, violento nella musica come nelle parole: in sostanza la quiete prima della tempesta in un crescendo di pathos che porta direttamente al cuore della traccia. Il pezzo esplode in tutta la sua carica, in un modo non troppo diverso da una “Clenching The Fist Of Dissent” (da “The Blackening”). I Machine Head non hanno difficoltà a proporre ciò che meglio sanno fare, stacchi velocissimi seguiti da break improvvisi dove Flynn urla la sua rabbia, nuovamente sopraffatti da ripartenze al fulmicotone, sorrette dalla solista di Demmel che fa meravigliosamente gli straordinari. E, vedremo, il ruolo della lead guitar il tutto l’album sarà cruciale. Di colpo, la terza parte, più melodica e breve, che chiude quello che probabilmente diventerà un altro manifesto dei Machine Head. I quali, neanche a dirlo, a sparare le cartucce migliori solo per il pezzo di apertura nemmeno ci pensano: “Be Still And Know” si apre con un passaggio di chitarra in tapping che prima sembra ripetersi all’infinito, poi viene splendidamente doppiato, lasciando spazio alla strofa iniziale, ma rimanendo comunque sempre in sottofondo ad accompagnare il susseguirsi dei versi. Scelta stilistica azzeccatissima e distintiva. Oltre a questo, un refrain fatto per essere proposto dal vivo ed ancora, uno comparto di soli memorabili. In sostanza, un pezzo che molte band vorrebbero poter avere nel proprio repertorio. E siamo solo alla seconda canzone della tracklist. “Locust”, primo singolo, che già da diverse settimane ha avuto modo di farsi apprezzare in rete, ricalca lo stesso stile, sebbene in modo più lineare: un’altra traccia corale, quindi, senza per questo cadere nella banalità. Splendido stacco soft centrale e – sta diventando una piacevole routine – chitarre soliste in grande spolvero. E mentre con una “This Is The End” è la velocità a farla da padrone (i breakdown finali, ben distanti dalle ultime banalità metalcore, non faranno che aumentarne la resa dal vivo), con “Darkness Within” i Machine Head mettono in risalto un altro tratto distintivo: la capacità di rendere un passaggio pesante anche senza puntare al parossismo sonoro; in questo caso, Flynn pronuncia versi sofferti a denti stretti (ricalcando quanto spesso fatto da Dave Mustaine) ed esprime, testo alla mano, il grido disperato e sentito di chi non ha più nient’altro che la musica a cui aggrapparsi. La chiusura è affidata a “Who We Are”, che potrebbe insinuare qualche dubbio nell’ascoltatore: utilizzare un coro di bambini (a quanto pare, leggiamo, appartenenti alla cerchia familiare della band) e un chorus particolarmente memorizzabile è sinonimo di caduta di stile nonché bieco esempio di ruffianeria musicale? A voi decidere. Ma, oggettivamente, anche in questo caso gli elementi positivi sono palesi e, se ciò non bastasse, un buon anthem per gli appuntamenti dal vivo è sempre utile nell’economia di una band che fa del live un punto cardine della propria proposta.
Quantità e qualità, dunque, per un album che, rispetto all’osannato precedente, forse ha in meno solo l’effetto sorpresa e che proietta senza dubbio i Machine Head tra i veri portabandiera mondiali dell’heavy metal moderno. Suonare ogni canzone, ogni nota come se fosse l’ultima, con lo stesso anelante e disperato spirito di un condannato a morte che esprime il suo ultimo desiderio. E il tutto, condito con una maestria evidente e non uno sterile virtuosismo. È questo che rende un pugno di ottime tracce un album eccellente.
Bentornati Machine Head!
Vittorio “Vittorio” Cafiero
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Tracce:
1. I Am Hell (Sonata In C#) 8:25
2. Be Still And Know 5:45
3. Locust 7:36
4. This Is The End 6:11
5. The Darkness Within 6:27
6. Pearls Before The Swine 7:19
7. Who We Are 7:11
Durata 49 min.
Formazione:
Rob Flynn – Chitarra, Voce
Phil Demmel – Chitarra
Adam Duce – Basso
Dave McClain – Batteria