Recensione: Unweaving the Rainbow
Che cosa ci fanno Richard Dawkins, James Labrie, Henning Pauly, Shawn Gordon tutti assieme?
Ovvero cosa accomuna rispettivamente un biologo/scrittore specializzato in temi quali genetica ed evoluzione della specie, con il noto cantante dei Dream Theater, il talentuoso multistrumentista leader dei Chain e il presidente della ProgRock Records?
Diranno i più: semplice, l’ennesimo side-project di stampo progressive rock/metal figlio di super star, oramai da anni sempre dietro l’angolo, ma troppo spesso sinonimo di tanto fumo e poco arrosto.
Se così fosse, risponderei che quanto supposto è una mezza verità: perchè, se è vero che i tizi sopra citati si sono riuniti per formare l’ennesimo supergruppo, per l’ennesimo concept album, sfruttando appunto un soggetto impegnato e di effetto (in questo caso appunto di Dawkins), è altresì vero che in questo caso di fumo non si tratta, visto che di carne sul fuoco ce n’è in abbondanza, e tutta di primissima qualità.
Ma andiamo con ordine: circa 10 anni fa, l’allora poco più che ventenne H. Pauly arrangiava del materiale, per quello che potremo definire l’archetipo del gruppo Chain. Per una serie di problemi, in modo particolare, la difficoltà nel reperire un singer adatto, Pauly decide di accantonare il progetto e quanto realizzato. Nel corso degli anni il musicista si dedica ad altro, fino a quando, con l’ausilio del cantante Matt Cash, decide di rimettere in piedi il cantiere Chain. Così insieme realizzano il debut Reconstruct, si ben diverso dal prodotto originale, ma tanto valido da far conoscere il nome del gruppo, e in particolare quello di Pauly negli ambienti prog che contano; e non facendo eccezione il celeberrimo Labrie, hanno origine i primi contatti tra i due artisti.
Come si potrebbe facilmente intuire, Pauly non ha mai perso interesse verso le prime incomplete composizioni; ed è grazie alla disponibilità di Labrie, entusiasta dell’idea, e alla piena fiducia dei responsabili della ProgRock Records, che Pauly decide di riarrangiare l’antico materiale, ora forte della maturazione acquisita.
Con l’appoggio dei suddetti e l’ausilio di musicisti di tutto rispetto arruolati per l’occasione quali Nik Guadagnoli (basso, e chapman stick) e Eddie Marvin (pseudonimo di Eduard Pauly, batterista fratello di Henning), escono finalmente allo scoperto nel 2004 i Frameshift.
Unweaving the Rainbow, questo il nome del prodotto finale, è un album in grado di stupire, entusiasmare, ma soprattutto emozionare. Le intricate trame, sono magnificamente intrecciate alla veste che Pauly sapientemente confeziona per il soggetto: musiche sì complesse, ma decisamente stratificate e mai gratuitamente prolisse. Infatti ascolto dopo ascolto emergono e riaffiorano nuovi elementi in grado di meravigliare e coinvolgere come solo un processo evolutivo è in grado di fare. Si, perché l’album è un continuo scoprire e riscoprire soluzioni si nuove, ma nello stesso tempo dal sapore antico; basti pensare che in un contesto attualissimo, dove non manca l’uso di elettronica, sono vivi richiami a sound settantiani impreziositi da salti nel background folcloristico americano.
In questo calderone l’unica vera costante è l’armonia tra i veri elementi, concretizzata grazie ad una cura per il particolare che ha del maniacale; a braccetto una produzione di livelli eccelsi, per un songwriting estremamente maturo e magistralmente strutturato. Contesto nel quale Labrie si muove con una disinvoltura che ha del prodigioso: come già dimostrato in altre occasioni, oramai è nei side project che il singer dimostra la sua classe, probabilmente libero da schemi che lo opprimono.
A dimostrazione di quanto fino ad ora scritto, si parte per questo lungo viaggio di 80 minuti, dopo una breve intro acustica (Above The Grass, Part 1), con The Gene Machine, brano prog in chiave heavy, tra i più duri del cd, nel quale riff e percussioni sono mixati a effetti e campionature. Basta attendere la successiva Spiders per vedere scende in campo da protagonista il cantante canadese, che sulla base di un sound articolato su tempi dispari si concede una singolare prova centrata su un complesso ma riuscito gioco di cori. Vi è spazio anche per momenti in cui si tira il fiato, come in River Out of Eden, Your Eyes e Nice Guys Finish First, dove si respira un’atmosfera quasi scanzonata. Ma è nel perfetto connubio tra i brani complessi, come nelle elegantissime Message From The Mountain o Arms Races (a mio avviso le migliori del CD) e le più introspettive e toccanti La Mer e Origins And Miracles, che l’album tocca vette artistiche indiscutibili.
Inutile dilungarsi oltre: i Frameshift debuttano a tutti gli effetti con un prodotto grandioso, e come tale, nella sua maestosità potrebbe non soddisfare tutti i palati. Ma gli amanti di un prog di livello avranno almeno due buone ragioni per gioire: Unweaving the Rainbow è uno degli album più interessanti e riusciti degli ultimi anni, e, come per ogni colossal che si rispetti, il secondo capitolo è già pronto!
Line-up
– Henning Pauly (chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, pianoforte, synth, percussioni, programming, orchestration, engineering)
– James LaBrie (voce)
– Nik Guadagnoli (basso, chapman stick, chitarra)
– Eddie Marvin (batteria)
Track-List:
1 – Above The Grass, Part 1 (0:43)
2 – The Gene Machine (5:32)
3 – Spiders (4:14)
4 – River Out Of Eden (5:42)
5 – Message From The Mountain (9:57)
6 – Your Eyes (2:57)
7 – La Mer (5:57)
8 – Nice Guys Finish First (5:45)
9 – Arms Races (8:34)
10 – Origins And Miracles (5:07)
11 – Off The Ground (5:49)
12 – Walking Through Genetic Space (4:07)
13 – Cultural Genetics (4:25)
14 – Bats (4:00)
15 – Above The Grass, Part 2 (6:51)
Luca “Arakness” Chieregato