Recensione: Upon Desolate Sands
Il fascino dei significanti e dei significati che sottendono, senza volerne abusare, la teoria della sincronicità teorizzata da Jung nel lontano 1952. In sintesi, secondo lo studio del poliedrico studioso svizzero, “nulla accade per caso” e a questo gli Hate Eternal hanno strizzato l’occhio perché nome migliore per la band (“Odio Eterno”), in relazione al violentissimo prodotto offerto, non poteva essere scelto. In più ogni qualvolta si ascolta un disco della band americana si ha la percezione di un cerchio che cabalisticamente, tra nome e musica, si chiuderà in modo perfetto. Una chiusura che per quanto ruvida, dura, violenta, cattiva e asfissiante, proprio da espressione filosofica di “odio eterno”, troverà un’armoniosa e carezzevole alchimia nelle note che la band americana saprà distribuire sul pentagramma.
Upon Desolate Sands rappresenta il transfert musicale di quell’“odio eterno” che diviene marchio di fabbrica inequivocabile e perentorio, come visto sin dal nome, degli Hate Eternal. Leader indiscusso della band è quel personaggio tetragono che risponde al nome di Erik Rutan, chitarrista, produttore, imprenditore (nel suo studio registreranno, tra i tanti, anche i Nile e i Cannibal Corpse) e fine e raffinato conoscitore del mondo della chitarra tout court. Il suo percorso artistico è decisamente insolito e coerente teso a realizzare il progetto che aveva nella sua testa. Il contesto della musica classica della sua famiglia viene subito spallato via dall’interesse verso la musica estrema nella quale veicolare la forza della sua insofferenza generata da alcune pagine negative della sua vita, infatti sarà il chitarrista dei Ripping Corpse, poi dei Morbid Angel e infine appunto degli Hate Eternal con i quali realizzerà delle perle che saranno infilate a partire dal 1999 con quel bellissimo disco chiamato Conquering The Trone e che troveranno in Kings Of All Kings (album fondamentale per le sorti della band) e il più Death Metal Infernus degli splendidi prodromi al meraviglioso Upon Desolate Sands.
Erik Rutan, la cui conoscenza è fondamentale per capire a fondo la sua produzione, come una spugna si imbeve, fino a farsi ispirare, da tanti generi musicali, fino ad approdare alla musica mediorientale e sumera le cui tracce saranno ascoltabili in I, Monarch.
Rutan, come già anticipato, ha un vissuto fatto di perdite, sofferenze, eventi tristi, disgrazie e azioni non esattamente sinonimo di leicità, ma la musica, con la madre e la moglie, saranno la via d’uscita per un’esistenza più morigerata e proba.
L’aderenza tra i testi dei brani, burrascosi e violenti, e il vissuto personale di Rutan, sarà una costante degli Hate Eternal; a tal proposito basti fare riferimento ai versi “I am the author of death” (The Violent Fury) oppure “O’woeful angst of pure despair / My war and destruction prevail” (All Hope Destroyed).
Upon Desolate Sands rappresenta l’esemplificazione paradigmatica della furia e del genio di Rutan, che qui riesce a perfezionare i già eccellenti lavori fatti con la sua band e ci consegna l’album più maturo e straordinario della sua carriera.
Questo disco, senza ombra di dubbio, apre nuovi scenari nel Death Metal moderno dove tutto è equilibrato e messo, con dovizia certosina, al posto giusto; tutto sembra rispettare un ordine e una collocazione perfetta e questo conferisce una grandissima organicità all’intero disco.
Inoltre sono apprezzabili le contaminazioni che Rutan riesce, con grande maestria, gusto e stile, a effettuare; per esempio è encomiabile il contributo Black Metal nei brani The Violent Fury, All I hope Destroyed e Dark Age of Ruin o l’Epic di Vengeance Striketh (che richiama alla memoria i temi del colossal Ben Hur) o For Whom We Have Lost, ma questi sono solo esempi estremamente rappresentativi.
Il disco è una scoperta, che lascia sempre meravigliato l’ascoltatore, di riff ipnotici, ciclici (What Lies Beyond) ed epici, caratteristica anticipata dalla bellissima copertina firmata da Eliran Kantor. Riff che, come Minosse nel V canto dell’Inferno di Dante con la sua coda avvolge i dannati tante volte per quanti sono i Cerchi che devono discendere, qui avvolgono l’ascoltatore in un turbinio di forza, impulso e violenza e che spesso presentano stop e ripartenze brucianti con incursioni in scenari che appaiono godibilissimi all’ascolto come, per esempio, la struggente melodia, impreziosita da sfumature arabeggianti, presente in All Hope Destroyed.
Sin dall’inizio (come il titolo The Violent Fury fa emergere) l’album si connota di forti connotazioni belliche e violente, sembra di stare in guerra, sotto un massivo bombardamento sferrato dalle sapienti mani di Erik Rutan coadiuvato dagli ottimi JJ Hrubovcak al basso e Hannes Grossmann alla batteria; esempio tangibile di questa caratterista è proprio il brano che dà il titolo all’intero disco, Upon Desolate Sands.
In apertura si faceva cenno alla conoscenza di Erik Rutan della chitarra e questa emerge chiaramente dal set utilizzato per la registrazione di questo disco, infatti lui per registrare Upon Desolate Sands utilizza una Ibanez Universe 7 corde con accordatura standard, ma con la 7^ corda addirittura portata in G#, mentre a livello di chitarre 6 corde utilizza B.C. Rich Custom o Gibson Explorer con la medesima accordatura.
L’intro di apertura The Violent Fury, come anticipato, è granitico, violento, corrosivo; il riff che accompagna la strofa è davvero accattivante e apre verso una parte Epic intensa e oscura.
What Lies Beyond è un macigno, dapprima cadenzata, poi infernale. Il blast beat di Hannes Grossmann è una goduria per le orecchie ed è difficile non lasciarsi trasportare da così tanta rabbia sonora. Il brano in questione, nella parte centrale, contiene un solo di chitarra, del solito “tuttofare” Erik Rutan, davvero eccelso (il disco è registrato ovviamente presso i Mana Recording Studios, di proprietà dello stesso Rutan).
Qui diviene doverosa una precisazione: il wall of sound che ci trasporta “sulle sabbie desolate” appare molto complesso, a tratti apparentemente confusionario, ma è semplicemente (si fa per dire) voluto: le chitarre sono riverberate in modo impeccabile, da sembrare vive. Poco importa se al primo ascolto si può avere qualche difficoltà nel distinguere nettamente gli strumenti. Si dice che la regola numero 1 di un buon mix è che “deve funzionare!” e qui funziona tutto in modo perfetto, frutto dell’esperienza dietro al banco del leader indiscusso della band.
La voce sembra provenire dalle retrovie ed è un po’ indietro rispetto a tutto il resto, più grassa e corposa rispetto al precedente Infernus del 2015. Questo contribuisce ad avere un suono più oscuro e maligno nel complesso, a tratti si fonde con le basse in prima posizione della B.C. Rich di Rutan. Produzione dunque più articolata e meno secca quella presente in questa release.
Vengeance Striketh è decisa e senza fronzoli. Allo scadere dei versi “You shall become descendants of my own image, I shall reign over the wonder of awe, I shall impose scarcity over man, As your penance is the downfall of all” c’è una polifonia in Re minore affidata alle lead guitars incredibilmente malinconica e struggente. Ci si muove sempre diatonicamente salendo in scala ma i bending strappalacrime sono la ciliegina sulla torta, da ascoltare con molta attenzione per poter apprezzare le singole melodie che si intrecciano in maniera sublime. Finale davvero intenso e senza dubbio uno dei punti più alti dell’intero disco. La devastazione sonora degli Hate Eternal è sempre coerente con le tematiche dei versi: “Spirits of the dead, I bestow upon you this offering of blood, As I commune with the dead, In the realm of the ones whom have perished” è un esempio lampante in Portal of Myriad, brano che definire “cattivo” è dir poco. Il lavoro di JJ Hrubovcak al basso è superlativo, una furia che nel mix non si perde mai per strada. Un suono grosso e sempre diretto all’interno di un lavoro molto articolato. Di sicuro non sarà facile assimilarne al primo ascolto le migliaia di sfumature presenti.
All Hope Destroyed è il brano più lungo dell’intero album, forse un po’ prevedibile in alcune parti, frutto forse di stilemi acquisiti e ben consolidati, ma in fondo molto godibile.
Dark Age Of Ruin è pura desolazione espressa in musica. Nel finale è bellissimo il tema diminuito e le ambientazioni della chitarra solista risultano piacevolissime, di classe. Per certi versi ricorda passaggi presenti in Those Whom The Gods Detest dei Nile.
La title track è come un cingolato, il drumming di Hannes Grossmann è ancora una volta in primo piano. Sul finale l’epicità si taglia a fette, lamenti orientali fuori campo ci fanno sognare e apprezzare la ricercatezza del combo riguardo alla post produzione. Tutto questo è esemplare!
Poi si arriva a For Whom We Have Lost, brano di chiusura di questo viaggio.
Siamo al capolavoro marziale di una band, quella degli Hate Eternal, che forse avrebbe potuto meritare di più in termini di riconoscimenti e prestigio. Trattasi di una strumentale eroica e sognante. Dalle prime note le atmosfere si fanno cupe e cadenzate, un ostinato di tonica-quinta e tonica-quinta aumentata che trasuda un’innata ispirazione, il genio di un compositore davvero sopra le righe. Temi che si rincorrono, si accavallano e si annientano in segno di disperazione.
Un disco, come visto, dalle caratteristiche uniche, che soddisfa anche i più esigenti e che incorona Rutan come uno dei massimi esponenti della musica estrema moderna.