Recensione: Urn
Il terzo album è quello della conferma, dice un vecchio adagio, e i Ne Obliviscaris ci sono arrivati con il favore del pronostico. Inutile girarci intorno, la storia della band parla chiaro. È fatta di un debut che può essere reputato “uno di quei dischi che escono una volta ogni vent’anni” (almeno). E al debut ha fatto seguito un disco forse più “umano” ma comunque splendidamente costruito, che ha comunque fatto fare la band un enorme salto in termini di pubblico, e in maniera più che legittima. Il pubblico, proprio lui. Il grande pubblico ha risposto a queste due prove con un calore estremo (ma dopotutto, parliamo di metal estremo), e non ha esitato a finanziare il gruppo su tutta la scala, consentendo ai NeO di fare tour in quasi ogni parte del globo terracqueo.
Detto questo, ci troviamo di fronte a “Urn”, album che, diciamolo fin da subito, è un buon lavoro, eppure desta non poche perplessità. A livello generale, possiamo dire che i NeO hanno cercato di andare sul sicuro, facendo affidamento alla formula che ha fatto la fortuna di “Citadel”. Non che possa stupire, dato che “Portal of I” è un album complesso anche nella sua lunga storia di gestazione (oltre 5 anni di maturazione, rielaborazione), è difficile pensare che con i tempi di due anni a uscita, voluti sì dalla band (per ovvi motivi di popolarità) che dalle leggi della discografia.
Questo però non serve a far luce su alcuni aspetti ombrosi. A cominciare dalla opener “Libera”, che un po’ come “Painters of the Tempest” tenta la via della suite in più parti. Da un lato cerca di riprodurre buona parte delle formule vincenti sentite in Citadel: il basso progressivo “alla Ne Obliviscaris” c’è, anche se il bassista è cambiato; i break melodrammatici di chitarra pure, e questi sembrano davvero estratti da “Painters of the Tempest” e infilati a forza in “Libera I – Saturnine Spheres”. Infilati a forza, questo è il problema, la prima composizione di “Urn” dimostra, anche se sembra un’eresia, diversi problemi a livello compositivo. Si risolve in un’alternanza di momenti trucidi e break melodici decisamente forzati, che si sciolgono in una seconda metà (non parte) decisamente migliore, con un buon passaggio strumentale che ricorda vagamente i momenti dolci di “Portal of I”, e mettono pure in luce un buon climax sonoro, salvo poi degenerare in “Ascent of burning”: due minuti di chitarra acustica e violino che, ancora, hanno parecchio di già sentito.
Segue il pezzo che aveva fatto da presentazione al disco, “Intra Venus”. Decisamente un pezzo migliore del precedente, con cambi di ritmo più studiati e, soprattutto, parti di clean ispirate. Non ci perdiamo sopra molto tempo in quanto lo abbiamo già sentito per diversi momenti, e perché comunque conferma il sound di “Citadel” in ottima maniera. Viene poi “Eyrie”, che molto probabilmente è il vertice del disco. Anzitutto mette in evidenza come i NeO non abbiano affato perso la loro straordinaria abilità compositiva. La struttura è quella che ha fatto la fortuna di “Forget Not”, applicata al nuovo stile. Un inizio molto tranquillo, marcatamente progressive, con ottima sezione ritmica e ottimo violino. Il brano prende gradualmente quota e si fa elettrico, sebbene la linea dolce del violino dia continuità e compattezza al pezzo, sostenuto anche da un duetto vocale particolarmente azzeccato. E soprattutto, è un pezzo che crea atmosfere e sensazioni piuttosto diverse o, quantomeno, leggermente atipiche.
Chiude la title track, anche questa divisa in due parti. A tutti gli effetti si tratta di un pezzo molto solido. Lo split in due parti risulta a tutti gli effetti piuttosto superfluo, le melodie sono piuttosto simili e si nota una netta continuità sonora. Quello che desta perplessità, e ancora una volta pare una bestemmia, è il ritornello della prima parte “And Within the Void We Are Breathless”. Le linee vocali di Tim Charles in questa sede risultano disarmoniche, e lo fanno in un modo che indica chiaramente come il singer abbia voluto strafare, in un contrasto di toni alti e bassi che risulta davvero tirato per i capelli. Meglio la seconda parte, che anche questo caso è un pezzo che non si basa sui contrasti ma sulla continua trasformazione del suono, eppure rimane pervasa da un senso di già sentito neppure troppo vago.
Prima di tirare le somme, uniamo quanto letto finora alla ben nota tendenza del recensore a piangere il morto quando si trova davanti a uscite che lo deludono in discreta misura. Ma se, qualcosa non gira, almeno ai propri orecchi, va anche detto in maniera chiara. “Urn” è un buon disco nel suo complesso, ma “buono” per questa band significa “poco”. E non giriamoci attorno, i Ne Obliviscaris nel 2013 sono sbucati quasi dal nulla come un fulmine a ciel sereno, è normale che ci si aspetti molto da loro. Oltre a ciò, mette in evidenza alcuni limiti compositivi e, possiamo ammetterlo, anche un certo calo di idee e di ispirazione. È presto per fasciarsi la testa, ci sono band che sono partiti a razzo e sono entrati in una empasse (di vario genere) che è durata anni (Enslaved?) prima di riprendersi. È presto per stabilire se i NeO si adageranno alla quadratura sonora di “Citadel” e, ormai, di “Urn”. Stiamo a vedere.