Recensione: Ursa
La musica, quella vera, può avere tempi di attesa molto lunghi. Ed è giusto che sia così, le emozioni possono aver bisogno di anni per fermentare ed essere tradotte in qualche forma che sia fruibile ai più. Così è il caso dei Novembre e della loro bislacca produzione discografica dopo il cambio di millennio. Un album fenomenale come Novembrine Waltz, seguito da 5 anni di silenzio, poi due dischi in altrettanti anni, poi un’ulteriore pausa interminabile. Tanto che in molti avevan pensato che mai più i romani ci avrebbero fatto dono della loro arte. Ve detto che i nostri hanno registrato, nel frattempo, l’abbandono di Giuseppe Orlando, fratello di Carmelo e storico batterista della band, sicché i romani sono rimasti in due – oltre a Carmelo è rimasto l’altro chitarrista, il fido Massimiliano Pagliuso. A questo punto bisogna dire, però, che in realtà nemmeno Carmelo Orlando, pur non avendo mai smesso di scrivere musica in questi 9 anni, non è stato sicuro, per lungo tempo, di far uscire il suo nuovo materiale a nome Novembre. Così non è andata, e come uno scherzo inaspettato arriva, addì 01/04/2016 Ursa, settima fatica dei nostri.
Sette come le stelle che formano l’Orsa, o almeno la parte della costellazione nota ai più. Nove anni di scrittura, tre anni di assemblaggio dei pezzi, sei mesi in studio. Ed eccolo qui Union des Républiques Socialistes Animales (URSA appunto), con il suo titolo Orwelliano che lascia intendere un deciso cambio di tematiche, più volte anticipato da Orlando. Un disco che parla del ruolo dell’umanità sulla Terra, e del nostro scarso rispetto per il pianeta che ci ospita.
E a livello di musica? Beh, la musica bene o male è quella che ha sempre fatto grandi i Novembre. Se già li conoscete, non importa quanto bene, in Ursa li riconoscerete benissimo. Quelli erano e quelli sono rimasti, al di là delle dichiarazioni di Carmelo. Il nuovo album, come i suoi predecessori, è tenuto in piedi dal singing malinconico e strascicato di Carmelo da un lato e dai caratteristici arpeggi di chitarra dall’altro. Questo pone innanzi al classico interrogativo su quale sia il senso di una band che non cerca mai di evolvere il proprio stile, ma porla qui ed ora, risulta riduttivo e fuori luogo. È possibile dire, in linea di massima, che questo disco si avvicina in maniera abbastanza precisa ad una sorta di miscuglio tra Classica ed Arte novecento, i due dischi, a parere di chi scrive, più ruvidi e diretti della band. L’album disegna tinte grigie, di paesaggi nuvolosi e solitari o di periferie industriali, spesso già evocati dai nostri. Melodia ce n’è molta, sebbene non arrivi ai livelli di un Novembrine Waltz, né tanto meno di Materia, dall’altro lato invece anche le parti growlate sono costantemente permeate da una malinconia di fondo. E ci vuol un po’ a scoprire perché.
Superando infatti il trittico iniziale, in tutto e per tutto canonico ma in cui risaltano nettamente due dei migliori pezzi dell’album, Australis e Umana, si arriva a brani quali la title track o anche Oceans of afternoons, in cui fanno la comparsa riff propri degli Agalloch, soprattutto quelli dell’ultimo album. Con la fortunata differenza che, laddove gli statunitensi giocano in casa e puntano sul mestiere, i Novembre sopperiscono con la passione, e soprattutto, non si snaturano.
Ancora, notevoli gli inserti di sax in Oceans of afternoon, brano non indifferente, a cui segue forse il pezzo più convincente – Annoluce. Sorretto da un incedere deciso e incalzante, richiama fin da subito A memory di Arte Novecento. Si rivela successivamente, però, essere un brano in continua evoluzione, che cambia ritmo ed atmosfera almeno quattro volte. Il trittico conclusivo infine, ritorna a standard iniziali propri essenzialmente di Arte novecento. Prima di concludere, c’è spazio per canzoni di ampio respiro, Bremen, e soprattutto Agathae, un pezzo che è rimasto in gestazione per oltre vent’anni: ai margini del pezzo strumentale, è una suite di 9 minuti che riassume quasi tutta l’evoluzione stilistica del duo romano, ne ripercorre la storia sino all’inizio – e non a caso cita la frase d’apertura di “The dream of the old boats”.
A questo punto ci manca solo l’Ep di contorno al disco, disponibile solo per chi ha preordinato Ursa. E non perché non l’abbiamo preordinato, ma perché ancora non è arrivato. L’ultima (per ora) fatica dei Novembre dunque non aggiunge e non toglie nulla alla proposta di quella che è, a parere di chi scrive, la miglior band che la nostra penisola abbia mai avuto. Piuttosto, la sintetizza e fa convivere assieme i vari elementi di album come Arte Novecento e Classica, ottenendo un risultato finale che elimina le spigolosità e le imperfezioni di entrambi. Se da un lato il risultato è in linea con le aspettative, però, dall’altro lato vi è la conferma di una qualità inossidabile e di una cifra stilistica unica, sia in Italia che all’estero. Può bastare, altroché se può!