Recensione: Utgard
Nella mitologia norrena, Utgard è la parte all’esterno di Midgard, il mondo in cui viviamo noi. È ricoperta da ghiaccio e neve, fa parte dello Jotunheim ed è governata da Utgard-Loki. (Altre info su bifröst)
In che modo gli Enslaved abbiano tradotto questo mondo nebbioso ed ostile nel concept che è anima del loro quindicesimo (!!!) album di studio, sarà difficile dirlo. Quello che va detto invece è che la copertina ci sta proprio bene. Un’altra cosa da dire è anche che i singoli (ben tre, a fronte di un album da otto tracce più un interludio) hanno lasciato interdetti molti dei fan di lunga data. Interdetto è rimasto anche chi scrive, perché, senza troppi giri di parole, “Jettegryta” e “Urjotun” paiono proprio due pezzini senza infamia e senza lode.
Discorso diverso va invece fatto per “Homebound”, sempre secondo chi scrive: una song assolutamente strepitosa e con lo scopo di presentare in pompa magna le clean vocals del nuovo acquisto Iver Sandøy. Voce diversa dello storico clean di Hedbrand Larsen (ben rimpiazzato da Håkon Vinje già nel precedente “E”) e che non ha convinto tutti. Anche perché il ragazzo, oltre al clean, ha in cura anche le pelli, sicché, in effetti, l’esecuzione di un pezzo complicato come “Homebound” dal vivo presenterà sicuramente delle difficoltà (come se il buon Larsen dal vivo fosse un fulmine di guerra, ma tant’è).
Cercando di fugare queste perplessità, dobbiamo dire che in “Utgard” le clean vocals sembrano tornare ad essere principalmente a cura del signor Kjellson, mentre Vinje e Sandøy si occupano (sempre accompagnati dal baffuto bassista) dei cori.
Venendo poi alla musica, “Utgard” potrebbe essere riassunto come un “E” più breve e un po’ più incazzoso. Breve, sì, breve. Gli Enslaved condensano le strutture complesse da otto e passa minuti che hanno contraddistinto gli ultimi dischi in pezzi molto più brevi (solo due superano i 6 minuti) e, si è detto, piuttosto furiosi.
Pezzi in cui ovviamente i cambi di velocità si fanno frequenti e ravvicinati e mischiano il classico incedere burrascoso che caratterizza i nostri da “Ruun” a questa parte a delle maestose aperture progressive, fattesi nel corso degli anni via via più raffinate. Ed ecco ad esempio la prima traccia dell’album, “Fires in the dark”, partire minacciosa e continuare con incedere lento ed incerto per diversi minuti fino al coro, che apre al prog più sognante. Vi è poi “Sequence”, un pezzo che sul già citato “Ruun” ci sarebbe stato davvero bene. Abbiamo infine, altro highlight assoluto del disco assieme ad “Homebound”, la conclusiva “Distant seasons”, dove vi aspettano quattro minuti di esclusivo, meraviglioso, prog sognante.
“Utgard” è, in definitiva, un disco di luci ed ombre a livello musicale. Questo sia per quanto riguarda il rimescolio del classico Enslaved-black a un prog che da anni sta diventando via via sempre più visionario. Ma luci e ombre che riguardano anche le collaudate sonorità dei nostri (ormai le stesse da “Ruun”, come si è detto). Queste sonorità iniziano a suonare un po’ prevedibili. Ad esse fanno da contraltare le parti prog, che al contrario girano davvero bene, e che questo giro sono anche un po’ sporcate di sonorità tipicamente post-rock.
Queste riflessioni ci inducono a pensare che “Utgard” possa essere un disco di transizione (e ci potremmo sbagliare, era già accaduto con “Riitiir“). Queste riflessioni instillano anche l’idea che tale situazione sia dovuta all’ingresso di due nuovi clean singer negli ultimi due album (al di là della differenza con cui quest’album è nato, come detto da Ivar Bjørnson, in sede d’intervista). Cosa aspettarci dal futuro? Difficile dirlo. Avessimo un prossimo album fatto di sole “Homebound” e “Distant seasons” in parecchi potrebbero finire per prendere tutti i cd dei norvegesi e buttarli nel caminetto. Chi scrive però ne sarebbe felicissimo anche perché, in questo “Utgard” quello che più funziona sono le novità e non i legami col passato.