Recensione: V
Torna il supergruppo Black Country Communion con “V”.
Tornano quattro grandissimi musicisti: il bassista e cantante Glenn “The Voice of Rock” Hughes (delle cui incredibili capacità, che mantiene inalterate a dispetto dell’età, ho già ampiamente tessuto lodi in occasione delle recensioni di “Radiance” e “Holy Ground” dei The Dead Daises), Joe Bonamassa, apprezzatissimo chitarrista dalle tecniche innovative che ha saputo rinverdire la vecchia scuola rock blues, Jason Bonham, valente batterista, figlio di John dei Led Zeppelin, e Derek Sherinian, già talentuoso tastierista dei Dream Theater, nonchè conteso turnista.
Torna la magia della buona musica.
La copertina del quinto album della band statunitense ribadisce il numero di uscita con un’astronave a forma di boomerang, con (“aridaje”) 5 grandi luci, la cui prua è rivolta verso lo spazio esterno, pronta a lasciarsi alle spalle bellezza e miserie del pianeta Terra.
L’album trova nello stile di Hughes il proprio fil rouge (ad ulteriore quanto superflua dimostrazione della personalità stratosferica e delle doti dell’ex bassista dei Deep Purple che in qualunque formazione si colloca finisce per influenzare pesantemente la produzione della band) e offre una buona razione di solido rock classico, intriso di venature blues, rhythm & blues, soul e funky. La prima parte del lavoro presenta brani sicuramente più intriganti, mentre la seconda parte che, comunque, si assesta su livelli qualitativi medio alti, offre l’occasione ai singoli componenti dei Black Country Communion di sfoderare le proprie abilità.
Con il tostissimo riff di apertura di “Enlighten” si assapora la brutalità dell’accellerazione di gravità, resa sopportabile dal connubio tra la voce ipnotica di Hughes, refrain accattivante e solo calibrato e distensivo di Bonamassa.
Di matrice funky è l’adrenalinica e godibilissima “Stay Free”, che presenta per contrappeso un assolo assolutamente classic rock.
“Red Sun” sfoggia un altro riff bello cattivo, appena ammorbidito dalle atmosfere vagamente psichedeliche del refrain, che fa registrare un’altra interpretazione magistrale di Hughes e riporta Bonamassa a fare da ago della bilancia con un assolo semplice ma di pronta presa.
“Restless” è un tuffo nelle profonde acque del migliore rock blues. Pezzo d’intensità a tratti dolorosa, da godere nota per nota, scandito dalla voce dolente di Hughes a cui fanno da contraltare i fraseggi afflitti di Bonamassa.
“Letting Go” brano easy rock di non troppe pretese, il più scarso del platter a volerla dire tutta, segna quel cambio di direzione nell‘album a cui si accennava in precedenza.
Da questo punto in poi il lavoro si attesta su una ponderata alternanza di rilassatezza dopata ed energia controllata con “Skyway”, “You’re Not Alone”, “Love and Faith”, “Too Far Gone” e “The Open Road” nei quali la band sacrifica l’immediatezza e l’impetuosità di cui è capace, sull’altare dell’eleganza.
Finendo per voler ancora una volta dimostrare, quasi che ce fosse la necessità, di avere, al proprio interno quattro fuoriclasse che con le personali peculiarità riescono a dare un marchio di fabbrica al mood della band.