Recensione: V: The Devil’s Fire
La Finlandia è un luogo incantevole, praticamente al limite dell’utopia naturalistica dove la magia prende forma sotto sentieri, alberi infiniti e laghi incontaminati. Sino a quando non si è li non si riesce a percepire l’impalpabile odore acre del male che stagna in ogni suo angolo; probabilmente è grazie al male naturalistico che a differenza delle “sorelle” Norvegia e Svezia in Finlandia da sempre si trova la versione più violenta ed oltranzista del black metal. Una folta schiera di band che non si sono mai adagiate ad una sperimentazione più o meno accentuata lungo la loro intera carriera, vive integerrima lungo i sentieri di questo magnifico paese; chi segue la scena da anni comprende cosa risiede ala base di tale concetto. I Baptism tornano sul mercato con il quinto disco ufficiale che per la prima volta prende vita attraverso una “major” del settore, quella Season of Mist, che da tempo a questa parte scova molte valide realtà del sottobosco per portarle ad un pubblico più ampio, donando una visibilità altrimenti impossibile. Che sia un bene o un male, spetta al singolo e al suo livello di “truezza” sia chiaro. Attenzione a non vederli come venduti o commercializzati i nostri, operazioni mirate e imposte non funzionano in casa francese e possiamo tranquillamente affermare come su “V:The Devil’s Fire” non ci sia nulla di nuovo, non c’è una rivoluzione nel sound del gruppo, ma bensì una sana dose di black metal Finnico che da sempre ci rallegra le giornate.
Sulla scia di Horna, Sargeist, Behexen, Satanic Warmaster & Co. i Baptism non mollano la prenda e si avventurano lungo tre quarti d’ora ottimamente scritti e concepiti, musiche intelligentemente congeniale e figlie di molti anni di gavetta alle spalle. La scelta, come da tradizione, di portare all’interno dell’album ospitiate di lusso che forniscano una dinamica maggiore alla singole tracce è un pregio dei nostri, ma c’è qualcosa che non convince e che non riuscirà mai a farli esplodere come dovrebbe nelle retrovie. Andiamo con ordine.
Se la partenza è da cardio palma, grazie ad una “Satananda” che non fa che confermare l’idea di essere di fronte ad un prodotto di ottima fattura, una sana dose di violenza che a noi piace e gusta tanto; è la seconda traccia che inizia a far traballare un po’ la capanna e qualche pensiero nasce insidioso lontano. “The Sacrament of Blood and Ash” ha un riff portante micidiale nella prima parte, una sassaiola in faccia che spurga headbanging da ogni poro, ma sul finale, quell’apertura al clean vocal e ad una melodia troppo forzata, se proporzionata alla prima parte, risulta in deficit creativo e pur ottimamente scritta spegne l’ira che dovrebbe fuoriuscire come lava da un vulcano. Questo non è un singolo episodio lungo la tracklist poiché anche all’interno del mid-tempo “Abyss” e nella conclusiva “Buried with Him” queste aperture melodiche vengono forzate volontariamente, come a giustificare una celata volontà di andare oltre il classico stile già conosciuto in passato. Certamente non stanno malissimo e distruggono ciò che di buono si può trovare lungo “V:The Devil’s Fire”, ma diventano un più che francamente sarebbe stato anche evitabile. Le altre traccie, quelle più violente, sono loro a fornire moltissimi spunti positivi a questo lavoro, risultando associabile ad una vecchia scuola scandinava della seconda ondata con in più la vena contemporanea che non stanca e non finisce mai di regalare gioie. La “Titletrack”, “Cold Eternity” e “Malignant Shadows” non hanno difetti, potremmo definirle quasi perfette come un canone standard copositivo del black Finlandese, un piccolo sussidiario per comprendere come si scrive e si realizza dell’ottimo “Svart Metal”. Cosa non colpisce dunque a pieno dentro questo quinto capitolo della saga Baptism? La pulizia delle composizione, la “non-atmosfera” che esce lungo ogni ogni ciclo d’ascolti; il black deve puzzare di marcio, deve soffocare e deve far stare male, metaforicamente, l’ascoltatore mentre qui tutto risulta troppo perfetto e studiato alla perfezione. Non fraintendetemi, come detto sopra ci sono ottimi spunti e brani geniali, ma la violenza e l’odore di morte non escono, facendo passare i suoni nei padiglioni auricolari in modalità apatia avanzata. Sono convinto che una volta finita l’ondata dell’entusiasmo del post uscita sul mercato, “V: The Devil’s Fire” non passerà molto spesso negli stereo degli aficionados.
Chiudiamo questo scritto con un applauso, sono dei bravi ragazzi suvvia, “V” di per sè rimane un buon album che non mancherà di riservare qualche buona emozione, senza però convincere a pieno, senza rimanere iscritto negli annali quale ipotetico “disco dell’anno”; tanto oggi tutto è cadenzato a disco dell’anno mi pare. I Baptism, nonostante le ospitate di lusso, nonostante avere scritto ottimi brani, nonostante sicuramente riuscire ad ampliare il loro bacino di fans, non verranno ricordati negli aeoni a venire a dispetto dei loro connazionali citati in partenza; manca la malvagità come spiegato che oltre alle catene, gli anticristi al collo e il facepainting di routine non pare essere di casa. Paradossalmente i nostri paiono più degli agnelli vestiti da lupi che il contrario.