Recensione: Vacuum

Di Mauro Gelsomini - 31 Dicembre 2004 - 0:00
Vacuum
Band: The Watch
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2004
Nazione:
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55

Ammetto di arrivare a questo, che è il terzo album della band, totalmente estraneo a questa realtà prog rock italiana, e mi imbatto dunque in “Vacuum” senza aver ascoltato nulla della produzione precedente, a partire dal 1998 con l’esordio “Twilight”, seguito nel 2001 da “Ghost”.

C’è da dire subito che la proposta del gruppo milanese è in larga parte influenzata dal Genesis sound dei primi ’70, derivazione accentuata dall’impressionante somiglianza tra la voce di Simone Rossetti e quella di Peter Gabriel. Tuttavia i The Watch basano le loro composizioni più sulla loro capacità di creare atmosfere, arrangiamenti che diventano con grande facilità teatrali, uniti all’interpretazione evocativa di Simone, e in quest’ottica la proposta è più da riferirsi ai Marillion di “Misplaced Childhood”. Dunque nel diffuso quanto gradito ritorno alle gloriose sonorità progressive settantiane, ben si inserisce questa realtà che stranamente non pesca praticamente nulla dalla tradizione prog rock italica, ma ha almeno due gravi difetti: il primo, già osservato, è la quasi totale mancanza di personalità dei nostri, che ptorebbero tranquillamente proporsi come clone-band dei Genesis, e non solo per le caratteristiche del singer, ma anche nelle partiture di chitarra e batteria, per non parlare delle tastiere, dei mellotron, dei moog, fin negli arrangiamenti; il secondo, e qui andrò contro gran parte dei miei colleghi, è la mancanza di melodie veramente accattivanti: nonostante sia presente un’attenzione particolare per il lato melodico/armonico, mi risulta che manchino i refrain strappa-consensi, e la cantabilità dei pezzi viene spesso messa in secondo piano rispetto alla ricercaezza delle atmosfere, che da sole, ahime, non possono reggere un’impalcatura posticcia e debole. La puntuale voce fuori dal coro è rappresentata da “Goddess”, i cui riff ricordano più un’attitudine Rush, per via del loro impatto e del dinamismo che riescono ad imprimere al pezzo.
Viene lasciato l’ultimo posto in scaletta per l’immancabile suite, la titletrack che con i suoi 11 minuti dovrebbe costituire la punta di diamante, mentre prosegue il discorso intrapreso senza alti né bassi, facendo sì che l’intero album possa considerarsi un’unica lunga suite le cui progressioni si individuano nei break acustici o nelle accelerazioni che donano potenza ad un songwriting raramente in grado di farci saltare sulla sedia.

Non bastano dunque, almeno per stupirci, dei pezzi suonati secondo il Genesis revival, né una perizia tecnica fuori dal comune – mi preme sottolineare l’abilità di Ettore Salati alla chitarra – visto che anche dopo diversi ascolti il disco non è decollato come si sperava.
Non mi unisco, in conclusione, al coro di giubilo che sembrerebbe accogliere i “The Watch” quali discendenti sospirati dei veri re del prog all’inglese, ma se pendete letteralmente dalle note di Gabriel e (ex) compagni, probabilmente questo disco darà sollievo alla vostra nostalgia.

Tracklist:

  1. Hills
  2. Damage Mode
  3. Wonderland
  4. Shining Bald Heads
  5. Out Of The Land
  6. Goddess
  7. Deeper Still
  8. The Vacuum

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