Recensione: Vadak

Di Tiziano Marasco - 14 Novembre 2021 - 7:59
Vadak
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Death 
Anno: 2021
Nazione:
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80

Stavo vedendo un paio di settimane fa “Pioggia di ricordi” dello Studio Ghibli. In detto anime (ovviamente giapponesissimo) si parla di musica tradizionale ungherese – con tanto di musica tradizionale ungherese di sottofondo (trattasi “Termetes” di Márta Sebestyén). Nell’ascoltarla mi è venuto in mente che il Doné (altro nostro autore) mi aveva parlato bene di “Vadak”, ultimo disco del progetto Thy Catafalque, uscito in estate.

Voi direte che la si sta prendendo per le larghe, ma un senso c’è. O, almeno, la speranza è che da qualche parte ci sia.

In maniera totalmente casuale in effetti, si va su Youtube, si scrive “Vadak” e si vede cosa esce fuori, tanto per capire se dobbiamo aspettarci qualcosa di diverso dal solito. Non me ne voglia Tamás Katái ma ormai le linee guida della sua creatura sono note.

E in effetti, appena appare la copertina del disco tra i videorisultati, qualche sorpresa c’è. La cover è infatti una foto – cosa che non era successa praticamente mai in 25 anni di attività. Ritrae una ragazza in costume ungherese su paesaggio di sfondo non particolarmente ungherese. In parole povere, il paesaggio sullo sfondo son delle montagne e l’Ungheria è una tavola da surf. Insomma, il paesaggio pare un po’ più Transilvano, e la ransilvania attualmente è in Romania.

Parlando infine di musica, la prima song che il Youtube di cui sopra mi propina risulta essere “Köszöntsd a hajnalt” seconda traccia in scaletta e, in linea con la copertina e con lo sconclusionato flusso di pensieri che guida questa recensione, un pezzo dalle tinte folk. Sospinto da vocals femminili in effetti simili a quelle di Márta Sebestyén, “Köszöntsd a hajnalt” è un pezzo meraviglioso, velato di certa drammaticità e di intensa melodia, melodia che copre la matrice black, comunque presente, tipica del Catafalco.

E in effetti di Folk ce n’è in tutto il disco, ma, siamo sinceri, in questa cinquantina di minuti ci troverete di tutto. “Vadak” è composto da canzoni con una miriade di cambi di tempo, melodia, atmosfera. il tutto a velocità selvagge (e infatti “Vadak” vuol dire “i selvaggi”). Molte composizioni sono delle suite, ma non suite dall’architettura arzigogolata in stile prog (tipo questa IQ – Harvest of Souls – YouTube). No, siamo davanti a delle suite nel senso Čajkovskijano del termine, suite in cui semplicemente si cambia registro come nello schiaccianoci (per chi non abbia presente, eccolo qui Tchaikovsky – The Nutcracker Suite, Op 71a – YouTube, dura solo 21 minuti ed è formato da 8 composizioni).

Per farla breve, in “Vadak” praticamente ci sono idee per 30 composizioni anche se in tracklist ne vediamo solo 10.

C’è di tutto. Prendiamo la opener “Szarvasz”: di suo è una canzone di circa 3 minuti, preceduta pruttavia da 2 minuti che sono una progressione di atmosfere senza molto senso, prima elettronica, poi folk, poi black.

E questi son 5 minuti… immaginatevi come possono essere la title track (che ne dura 12) o Móló che ne dura 10. Qui però c’è da sottolineare che “móló”, contro ogni aspettativa, è proprio il molo del porto.

In tutto questo, però, si distinguono due pezzi strumentali che spaccano in due il disco. La prima è “A kupolaváros titka”, anche singolizzata e dotata di video (girato peraltro a Budapest). Un pezzo di elettronica pura, tutta piano e tastiere, di quelle che ci starebbero bene in una tea house in un giorno di pioggia. La successiva “Kiscsikó (Irénke dala)” invece, tanto per sparigliare le carte, starebbe bene in un saloon, dato che ha delle discrete influenze western.

Ma metal ce n’è? Eccome, anzi, ce n’è più che in “Geometria” e forse anche più che in “Naiv“. Andate pure a sentire le due track lunghe di cui sopra e se non vi basta provate “Gömböc” e “Az energiamegmaradás törvénye”. In “Vadak” c’è anche più scream rispetto alle uscite recenti.

Folk, black, elettronica, western OST, atmosphere ipnotiche, stmosfere calde e sognanti, furia, eccletismo. “Vadak” è il solito album targato Thy Catafalque, il solito album che può essere targato solo Thy Catafalque, perché la proposta del progetto ungherese, per quanto sempre sostanzialmente fedele a sé stessa, non ha eguali nel panorama metal e musicale in genere. Ogni album ha le sue linee guida imprescindibili (tra cui gli stessi vocalist), ogni album si differenza dagli altri per qualcosa. “Vadak” lo fa acquisendo una vena un po’ folk e divenendo ancora più erratico. Non arriva a livello dei superclassici (“Hasa roka rádio” e “Rengeteg“) e a parere di chi scrive sta un po’ sotto a “Geométria”, ma è senza dubbio l’ennesimo centro di Tamás Kátai, l’ennesimo disco su cui buttarsi a capoffitto.

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