Recensione: Vampiro
Si dice che l’assassino torni sempre sul luogo del delitto. Lo fanno pure gli Helstar, i quali a a 27 anni di distanza recuperano la figura mitologico-letteraria del vampiro. “Nosferatu” usciva nel 1989, oggi è la volta di “Vampiro” appunto, utilizzando addirittura il vocabolo in lingua italiana, forse in omaggio a quel Polidori che per primo (con Bram Stoker ancora da venire) si era incaricato di dar corpo e forma alla messe di narrazioni orali riguardanti strane e diaboliche creature in grado di rimanere in uno stato di limbo tra la vita e la morte, e dedite al tormento dei vivi, loro libagione prediletta. “Vampiro” è un vero e proprio concept album, dalla durata considerevole, pubblicato sotto le insegne della etichetta fondata da Dave Ellefson, bassista dei Megadeth ma anche cristiano “rinato”.
Non stiamo parlando strettamente di un “sequel” filologico di “Nosferatu”, ma è evidente che le tematiche arcane ed esoteriche connesse all’argomento vengano riprese ed ampliate con questo nono capitolo della band che sin dal nome e dal logo grafico contenente un pentacolo (in questo caso a partire dal secondo album “Remnants Of War” del 1986), riporta lampanti connessioni con i sotterranei a sud del Paradiso. Eccezion fatta per la colonna portante della band, James Rivera, il solo Barragan getta un ponte col passato, avendo fatto parte della formazione dall’esordio fino al ’95, per poi esservi rientrato a partire dal 2006.
“Vampiro” è un album che più classico non si potrebbe, sia per lo stile Helstar (nonostante qualche passaggio più speed e thrash oriented in carriera), sia per il filone di riferimento al quale la band è sempre dichiaratamente appartenuta, il cosiddetto US Metal. La proposta è ricca e corposa. Atmosfere epiche e minacciose, cambi di tempo adrenalinici, un cantato potente, stentoreo ed altrettanto epico, un guitar work intricato, massiccio e incessante, un lavorìo di batteria parimenti articolato e scoppiettante, canzoni discretamente complesse, impossibili da mandare a memoria al primo ascolto, per certi versi financo ostiche. Del resto lo US Metal non ha mai amato melodie troppo schiette e dirette, ma ha sempre preferito trame intrecciate e di lenta e faticosa assimilazione, sebbene assai muscolari. Una produzione impeccabile, esaltante e nient’affatto nostalgica (mixing a cura di Bill Metoyer), tematiche assolutamente in linea con lo scenario sonoro sviluppato dai cinque Van Helsing texani. Ecco, forse magari l’artwork non è questo granché, ma va anche detto che gli Helstar non si sono mai distinti per un particolare gusto estetico in tal senso.
Dunque tutto ottimo, tutto positivo, successo garantito? Si e no. Se da un verso è vero che sostanzialmente non si possono muovere grosse critiche formali al lavoro della band, tonica, motivata e determinata a servirsi di tutta la propria più che trentennale esperienza per reggere il passo con i tempi attuali e con una concorrenza agguerrita come non mai; se è vero che un devoto fan della prima ora difficilmente rimarrà deluso da questo materiale; se è vero che gli Helstar non possono che fare simpatia e meritarsi rispetto per la loro lunghissima militanza operaia in ambito heavy metal, devo altresì ammettere che lungo l’oretta di ascolto di “Vampiro” non è mai scattata veramente la scintilla nei confronti delle canzoni in scaletta. Preso atto dell’egregio lavoro produttivo e della validissima esecuzione agli strumenti, di per sé il songwriting non mi ha mai realmente catturato sino in fondo, risultando una ripetizione, roboante quanto si vuole, ma anche abbastanza prevedibile e “telefonata” di tutti gli stilemi che mi aspettavo ancor prima di premere il tasto “play”.
Il mio è un giudizio strettamente personale, poiché da un punto di vista “oggettivo” mi rendo conto che il lavoro sia solido, fatto di mattoni robusti e filo spinato a perimetrare tutto il castello del conte Vlad (menzione di merito per il filotto rappresentato da “To Their Death Beds They Fell”, la strumentale “Malediction” e “Repent In Fire”, il climax dell’album). Come recensore è corretto che io riporti innanzitutto queste mie impressioni “istituzionali” a chi legge. Cionondimeno, mentirei se dicessi che, anche dopo svariati ascolti, mi sia sentito rapito da ”Vampiro”, sposandolo con genuina partecipazione. Un ottimo disco di mestiere, meritevole di apprezzamento, ma che a parer mio aggiunge davvero pochissimo a quanto detto dalla band sin qui. Un titolo che sarebbe potuto indifferentemente uscire 10, 20 o 30 anni fa, con l’aggravio di ripetere oggi ciò che è già stato detto (e ripetuto) ieri. Forse non è lecito aspettarsi alcunché di diverso dagli Helstar, in fondo chi chiederebbe un disco iconoclasta agli Armored Saint, ai Vicious Rumors o ai Lizzy Borden? E non è neppure questo il punto, quanto semmai l’aver ascoltato materiale tenace ma del quale non mi sono mai innamorato abbandonando ogni remora. Non c’è un perché razionale, accade (o non accade) e basta, è così che – per fortuna – funziona la musica. Rivera ed i suoi accolti hanno fatto ciò che sanno fare e lo hanno fatto al meglio. Accontentarsi o meno è demandato alla sensibilità di chi ascolta. E così sia.
Marco Tripodi