Recensione: Vampyroteuthis Infernalis
Il Vampyroteuthis Infernalis, comunemente conosciuto come il calamaro vampiro, è il nome di un mollusco che si è adattato a vivere a grandi profondità, in una zona caratterizzata da scarsa ossigenazione e in assenza di luce: probabilmente, sarà proprio questa specie animale ad aver ispirato l’opera della band, che ne ha fatto proprio il nome. Infatti, dando un fugace sguardo alla copertina, possiamo intravedere proprio un gigantesco polipo, uno di quegli esseri che tormentavano, tra realtà e leggenda, i navigatori degli oceani: un essere che ricorda il Kraken, dagli occhi neri come la morte, immerso nelle più profonde acque scure.
L’album è composto da due sole canzoni, ognuna delle quali dura poco più di venti minuti ciascuna. VI I è il primo brano che incontriamo: dopo una breve apertura di tastiere, si fa largo un oscuro riff di chitarra, tra urla strazianti che potrebbero sembrare un soffio del vento in burrasca. La traccia di chitarra non si discosta mai dagli standard del più classico black metal, con tracce violente e aspre, che creano un vortice imponente, maestoso e malinconico in cui gettano l’ascoltatore. Anche VI II, seconda e ultima traccia di Vampyroteuthis Infernalis, comincia con una parte introduttiva di tastiere, e prosegue nella stessa direzione del precedente brano, tra urla taglienti e massicci riff di chitarra, che stordiscono l’ascoltatore.
Il disco suona molto primordiale e forse a tratti un po’ troppo ripetitivo ma, lavorando su una pluralità di suoni e dei piccoli accorgimenti, siamo sicuri che sentiremo ancora parlare di loro. La produzione è low fi in modo ricercato, perché ben si allinea alla tematica dell’album, ovvero il mare e le sue oscure profondità. Ed è proprio questo connubio ad essere la piacevole novità del disco: già, perché c’è del black metal anche negli abissi più oscuri, ed è li che troviamo i Vampyroteuthis Infernalis.