Recensione: Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa

Di Daniele Balestrieri - 17 Marzo 2011 - 0:00
Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa
Band: Moonsorrow
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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84

“In rovina è il mondo in cui siamo nati. Distrutte le città dove abbiamo vissuto.”

Questa la coppia di battute che spalanca il sipario della sesta fatica ufficiale dei Moonsorrow, tre anni dopo Tulymyrsky e quattro anni dopo quel Viides Luku che ha fatto gridare al miracolo tutti e quattro gli angoli del pianeta.
Produrre una serie di album di gran spessore fin dagli albori della propria carriera significa generare un’ondata di attenzione fuori norma ogni qualvolta si annuncia un nuovo lavoro.
Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa è stato atteso visceralmente e bramato da una folta schiera di fan che non attendeva altro che alzare le armi al cielo… e che invece si è ritrovata carponi, faccia a terra, a scavare con le unghie nella polvere sotto un cielo senza stelle.
Album più emozionalmente devastanti di questo è davvero difficile trovarne: nonostante la band stia ritornando a piccoli passi verso le radici di quel black metal che ha generato parte del proprio sound ormai caratteristico, una specie di “dolcezza” di fondo riesce ad arrotondare gli spigoli più abrasivi del loro sound e a portare l’intera produzione verso melodie ossessive, ripetitive, con riff che ruotano e si evolvono all’interno di ogni singolo brano fino a creare un muro sonoro che progredisce, nel senso più “progressive” del termine, fino a stordire l’ascoltatore, trascinandolo in una realtà parallela popolata di sensazioni ai limiti del soffocante.
Mozzafiato ancora una volta le ritmiche profonde del basso di Ville, agli antipodi delle sue corde vocali ancora una volta stridule e laceranti nell’accompagnare le quattro tracce che compongono l’album. Minacciose le percussioni, come tuoni lontani che rincorrono uno scampolo di sopravvissuti a un cataclisma inenarrabile che in tre infausti intermezzi racconta la sua storia di miseria e di inquietitudine mentre fugge da un’entità orribile che ci è data solo da percepire tra il crepitio dei passi sul ghiaccio e tra i colpi di tosse dei pochi sopravvissuti che gemono e si contorcono nell’ultimo giorno dell’umanità.
I sei guerrieri di Helsinki hanno cesellato per noi un viaggio unico e interminabile; l’album è clinicamente strutturato per essere ascoltato senza respiro grazie all’alternarsi ritmico di brani e intermezzi atmosferici incentrati su una fuga continua, angosciosa nel suo incedere disarticolato e al tempo stesso magica nella sua potenza narrativa: la scala epica raggiunge vette via via sempre più alte man mano che l’album progredisce verso il suo finale stellare, tanto epico quanto annichilente, una vera manna per gli amanti di quei crescendo sfacciatamente emotivi ai quali ci aveva abituato il caro vecchio Quorthon.

Nonostante sia apertamente dedicato a chi dalla musica ricerca praticamente un’esperienza extracorporea, Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa risulta in realtà più ostico di quanto non sia lecito aspettarsi. È un album amaro, a tratti spregevole, al quale non è semplice affezionarsi. Si sente molto la mancanza di una di quelle intro che fin da Metsä hanno aiutato a entrare piano piano nel “mood” dell’album, che invece stavolta ci viene sbattuto in faccia senza troppi complimenti. Durante l’ora e passa di aggressione musicale si ha quasi la sensazione di essere un criceto che corre su una ruota o un serpente che si morde la coda: l’unica concessione che ci viene fatta è un’opener come “Tähdetön“, immediatamente amichevole in quanto riconducibile a una sorta di “mash-up” di tutti i cliché dei Moonsorrow più moderati, una specie di traccia a tratti decisamente unidimensionale che celebra tutti i riff meno incisivi e più atmosferici che hanno fornito supporto ai brani di punta della quindicinale carriera dei cugini Sorvali.

I riff portanti ancora una volta sono in larga parte memorabili e centellinati con maestria in modo tale da rimbombare in testa per ore e giorni, ben oltre la fine del primo ascolto. La presenza di fraseggi particolarmente brillanti all’interno dei brani proposti, specie verso la fine, oltre all’onnipresente variazione sul tema di Twilight of the Gods/One Rode to Asa Bay che è un vero e proprio appuntamento irrinunciabile tra i fan di vecchio pelo dei Moonsorrow, mi hanno personalmente gettato in confusione per molti giorni. L’album, fondamentalmente solido e pesante come un pezzo di granito, appare quasi un esercizio di mestiere composto meccanicamente in sede separata rispetto ai testi, i quali sono poi stati evidentemente “strizzati” nella musica per aderire a questo o quel passaggio. Il risultato è un album a tratti liricamente incomprensibile, che a drammaticità di immagini evocate non collega altrettanta drammaticità musicale. Ci si ritrova spesso a dover associare una montagna di cadaveri trascinata da un carretto la cui campanella (Raunioilla…) tintinna in un’aria pestilenziale… associata a una breve ballata folk tutt’altro che pestilenziale. Sembra quasi che gli manchi un’anima, palese invece nei dischi precedenti.
Ma questo è forse voluto? Un album meccanico, “vuoto”, come vuoto è il senso di morte che trasmette? Poco importa: il talento scaldico di questi sei signori finnici è riuscito a modellare ben più di un passaggio che entrerà nella storia della new wave di pagan metal scandinavo:

“Oltre la vista gli occhi sono accecati dal ghiaccio
Un vento ruggente di furia ci taglia le mani
L’aria è sempre più gelida, i giorni più lunghi
Il peso del cielo canta come un coro
che tormenta le orecchie.
L’istinto domina quando la ragione è oscurata
Nessun sentiero sotto i nostri piedi.

Il baluginio della neve che acceca i vagabondi, facendo persino sparire il sentiero sotto i loro piedi, è catturato con maestria teatrale dal riff che irrompe in chiusura di “Nälkä, väsymys ja epätoivo“, candido e pungente come un blizzard sotto al sole, e grandissimo è il pathos generato da quei pochi attimi strumentali che introducono “Huuto“, primo vero cambio di registro dell’album, sollievo solo apparente il cui artificio è palpabile solamente in musica. Il riff principale cambia forma e si evolve all’interno della canzone, portando i protagonisti della nostra storia in un punto di luce la cui dinamicità musicale mal si sposa con l’estrema drammaticità dei testi, di un epico a tratti persino troppo costruito, stanti i cori di tipica scuola bathoriana piazzati un po’ qua e un po’ là, senza quella particolare coerenza che invece sarebbe quasi pretesa da un concept tanto impegnato come questo. Lo stesso testo è difficile da seguire, frammentario al punto da funzionare bene di frase in frase, ma da risultare disarticolato quando soppesato e interpretato sua interezza.
Le tastiere emergono nitide e trionfanti dal caos delle chitarre che aveva segnato il passo nella prima metà dell’album e ritornano i Moonsorrow di un tempo, quelli che amavano cospargere le proprie canzoni di ritmiche folk. È quasi un ritorno a Voimasta ja Kunniasta, se non addirittura a Suden Uni. Tra i vibranti passaggi strumentali si scorge Sankaritarina, Aurinko ja Kuu e persino la battagliera spensieratezza di Sankarihauta.
Segmenti “War Pagan” in un album che tocca invece le corde più lugubri della morte e dell’abbandono? Presenze peculiari, ma a conti fatti nono del tutto fuori luogo:

“Dei lupi i deboli cadono vittima
ma i forti comprendono il volere dei lupi
Ciechi negli occhi, seguiamo il suono di una speranza perduta
che si leva in cielo – ascoltiamo le urla dei dannati
e la luce rivela le macchie di sangue.”

Agghiacciante la disperazione del gran finale dell’album: tra bassi e alti di un arrangiamento sinfonico di fino, cortesia di Henri “Trollhorn” Sorvali, si ode l’ultimo sopravvissuto cadere in ginocchio e urlare la cessazione di ogni speranza alla vista di “piane trasformate in cimiteri / sotto lo stesso cielo / sopravvissuti alla tempesta / memori di una guerra spazzata dal vento”.
Kuolleille” è l’inno per eccellenza alla fine definitiva, l’ode macabra e avvilente di un viaggio che terminerà solo tra le braccia della morte. Si torna quasi a quel black-pagan in stile norvegese, brevi rimandi ideologici a Enslaved o Emperor, i primi per i riff lineari ed evanescenti e i secondi per la grassezza delle tastiere che aggiungono teatralità alle immagini di morte e distruzione perpetrate da una delle conclusioni più nere e dolorose della storia del pagan moderno.
Tutto è un ripetersi ossessivo di riff e cori che ancora una volta ricordano stramaledettissimamente l’epos paranoico di “Hiidenpelto & Häpeän Hiljaiset Vedet”, classe 2001, denudato però di tutto l’orgoglio e il furor bellico di cui era impregnato Voimasta ja Kunniasta.

In Kivenkantaja, la tragedia del portatore di pietre scemava nella catarsi corale di Matkan Lopussa; Verisäkeet guardava alla luna prima di scivolare nel silenzio e V: Hävitetty riusciva, in extremis, a scacciare i suoi demoni in un fuoco da campo attorno al quale noi tutti ci siamo stretti, intirizziti, dopo un’ora di passione. In Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa non vince nessuno: quest’album è la celebrazione della sconfitta, del progressivo appassire della vita, dell’umanità che si trascina nell’inferno della fine del mondo senza sollievo e senza conforto. Struggente, quasi insopportabile nella sua marzialità la sequenza finale di “Kuolleiden maa“, che si ricollega direttamente, anche se abbattuta di mezzo tono, alla sequenza introduttiva di Tähdetön: è il viaggio senza fine, il ciclo mortale che si ripete. Perché, come canta il titolo, “come ombre vaghiamo / nella terra dei morti“.

Daniele “Fenrir” Balestrieri

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TRACKLIST:

1 Tähdetön
2 Hävitetty
3 Muinaiset
4 Nälkä, väsymys ja epätoivo
5 Huuto
6 Kuolleille
7 Kuolleiden maa

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