Recensione: Vector
Il successo ottenuto nel loro primo decennio di vita gli Haken se lo sono guadagnato con tanta gavetta, ispirazione e incessante spirito di sperimentazione. La band londinese è riuscita a svecchiare il prog. metal laddove i Dream Theater si erano impantanati e il passaggio di testimone tra vecchie e giovani è stato un toccasana per un genere che stava iniziando a ripiegarsi inesorabilmente su se stesso.
Nella loro ancora concisa (ma valida) discografia Vector è il quinto full-length in studio, arriva dopo un bel live e musicalmente si colloca agli antipodi rispetto a The Mountain, disco più vicino al prog. rock per certi versi. Il combo inglese, infatti, complice il tour con Mike Portnoy (che ha festeggiato i suoi 50 anni proponendo la Twelve step suite on stage) in pochi mesi riescono a dare alla luce il loro album più corto in carriera (circa 45 minuti), composto de sette tracce granitiche che portano avanti quanto di heavy proposto in “Initiate” e “The endless knot”, pezzi metal-oriented di Affinity.
Galeotto è anche la presenza, quale consulente al mixaggio, dell’ex-Periphery Adam Getgood (Sikth, Devin Townsend) e il concept sotteso al disco, che vuole indagare i meandri della mente umana, vicino ai confini della follia. Se il tema risulta inflazionato (e Dark Side of the Moon è inarrivabile) gli Haken provano a cimentarsi con questo topos in modo postmoderno, ispirandosi a pellicole da NERD come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Shining, Bronson (del geniale N.F. Refn) e Arancia Meccanica, oltre che tributando un omaggio alla psicanalisi. Il tastierista Diego Tejeida, infatti, ha rivelato di andare da un analista e che gli sarebbe piaciuto svolgere tale professione se non fosse diventato musicista.
Ecco spiegato l’artwork lampante, una macchia di Rorschach creata ad hoc in modo randomico per stuzzicare la fantasia dell’ascoltatore, che farà suo l’album cercando di svelarne la trama cervellotica. Possiamo solo dirvi che tutto origina dall’opener (nonché singolo) “The Good Doctor”, medico che ha un rapporto particolare nei confronti di un paziente apparentemente catatonico.
Dopo tanto sfoggio di cultura postmoderna, passiamo alla musica. Il breve intro “Clear” inizia su toni cacofonici che richiamano la musica disumanizzante composta dai NOMACS in The Astonishing. Ci pare d’immergerci in un mondo pervaso da angoscia e decadenza… “The Good Doctor” fortunatamente non vive solo di atmosfere oscure, ma anche di ampie schiarite melodiche e parti strumentali dalla grande perizia tecnica. Tutto in perfetto equilibrio tra follia compositiva e chiarezza d’intenti, gli Haken confermano il proprio sound ricercato e lo fanno dando risalto a una sezione ritmica che macina doppia cassa e ostinati impegnativi (piccola nota a margine, il bassista Conner Green, in forze dal 2014, ha solo 25 anni).
Seguono i due pezzi più lunghi in scaletta (da soli raggiungono quasi metà del minutaggio complessivo dell’album). “Puzzle Box” ha una longevità notevole, a ogni ascolto rivela nuovi aspetti in fase d’arrangiamento: difficile seguire i meandri sonori proposti senza soffermarsi sulla quantità di trovate messe in campo dagli Haken. Ad esempio, al minuto 2:20, inizia una parte strumentale fatta di poliritmi insani che non hanno niente da invidiare ai Between The Buried And Me e ai migliori Dream Theater. Non manca un segmento centrale di musica elettronica sapientemente gestita e integrata alla cornice metal, che torna a riesplodere nei minuti finali, con seconde voci a rincorrere il main vocalist, e un sound roccioso vicino al “black album” dei citati newyorkesi.
Dopo tanto “vulgar display of prog” la mini-suite “Veil” regala qualche secondo di pausa prima di affondare il colpo con delle ritmiche rocciose che vanno a risvegliare gl’istinti più bestiali dell’io. Il dionisiaco, tuttavia, vive compenetrato dalla voce apollinea di Ross Jennings, come da dettato opethiano (band da sempre riferimento dei nostri, ascoltate il quinto minuto e confrontatelo con “The Grand Conjuration” in Ghost Reveries). Trovano spazio, altresì, contaminazioni djent, parti di dirty organ e un falso epilogo attorno all’ottavo minuto. Superata una sezione psichedelica, infine, come non accostare il decimo minuto alla poco riuscita Repentance (quarto movimento della suite di Portnoy)?
Prosegue la spirale di note suonate a velocità strabiliante con “Nil By Mouth” (nihil per os), che si candida a essere la migliore strumentale mai scritta dagli Haken e per il momento se la gioca con “Portals” in Visions. Può essere accostata a “Morphing into nothing” degli Andromeda e, molto vagamente, a certe sonorità dei Nova Collective (progetto cui ha collaborato Richard “Hen” Henshall), mentre il supponente manierismo proggish è figlio diretto del secondo capitolo targato Liquid Tension Experiment.
Discorso diverso per l’ultima coppia di pezzi, che purtroppo non reggono il confronto con il resto del platter. La lisergica “Host” convince solo a metà, troppo brusco il cambio di sonorità rispetto al brano precedente e ritmi fin troppo blandi, anche per una band che non ha mai nascosto un lato floydiano. “A Cell Divides” risulta un filler o poco più, con parti vocali cadenzate e anodine.
La domanda legittima è la seguente: perché un simile sbilanciamento nella tracklist e la presenza di due filler in calce all’album? Forse era meglio pensare a un EP come già per Restoration nel 2013? Aspettare un altro anno per avere un disco meglio strutturato sarebbe stato l’ideale: gli Haken devono stare attenti a non deludere i propri fan, ogni passo falso può costare caro di fronte alla schiera dei sostenitori più esigenti (e di questi tempi fidelizzare un pubblico di ascoltatori è cosa ardua). Vector è un album imperfetto, dunque, ma a tratti avvince, non raggiungendo nel complesso le vette del capolavoro definitivo. Forse il concept avrà un prosieguo (volendo confidare nelle parole sibilline della band), per ora la fiducia nel gruppo inglese resta alta, si tratta di musicisti giovani che hanno spazi di miglioramento e potranno ancora stupire in futuro.