Recensione: Veleno

Di Gianluca Fontanesi - 22 Maggio 2019 - 0:05
Veleno
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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83

C’era grande, grandissima attesa per il ritorno dei Fleshgod Apocalypse, e anche grande apprensione a causa del doppio abbandono di Tommaso Riccardi e Cristiano Trionfera, avvenuto nel 2017 per ragioni personali. Cosa succede in generale a un band che perde cantante e entrambe le chitarre in un colpo solo? Nella migliore delle ipotesi cambio o snaturamento del sound originale e nella peggiore carriera a meretrici, per usare un francesismo. I nostri Fleshgod probabilmente non erano in classe durante la discussione delle dinamiche generiche post scisma, quindi assumono due macchine da guerra come Fabio Bartoletti (Deceptionist) alla chitarra e David Folchitto (Stormlord) per i live alle pelli, completano il quadretto con l’imprescindibile soprano Veronica Bordacchini, piazzano Francesco Paoli al microfono e alla sei corde e cosa ne esce? Il caos? Tutt’altro. Veleno è il miglior disco della loro carriera!

La prima cosa che salta all’orecchio è la diversità di produzione rispetto alle opere precedenti: Veleno suona più death che mai, le chitarre sono state finalmente alzate, il pianoforte di Francesco viene un pelino lasciato in sottofondo e il tasso tecnico generale si è alzato non di poco. I riff suonano molti meno tremolo, il basso si sente e i barocchismi molto presenti in King sono qui ridotti al minimo. Veleno è un disco spontaneo e soprattutto brutale, che pesca a piene mani in tutta la carriera dei nostri andando anche a strizzare l‘occhio al mai dimenticato Oracles; tutti gli elementi sono dosati alla perfezione e l’ossatura dei brani è un carro armato. Le pelli tornano a macinare blast beat e a pattern molto articolati mentre il growl di Francesco non si discosta molto da quello di Tommaso; le clean stanno sempre allo 0,5% e sono ad opera di Paolo col suo ormai inconfondibile timbro stridulo.

Il veleno è appunto il filo conduttore di tutti gli undici brani del disco, che si apre con Fury e inaugura il festival della legnata nel migliore dei modi e in maniera assolutamente memorabile. Cambi di tempo repentini, epicità, fughe di pianoforte, teatralità; il brano non lascia scampo ed è una dichiarazione d’intenti che manterrà questo livello fino alla fine della tracklist. Carnivorous Lamb offre un’inaspettata vena folk iniziale, con Maurizio Cardullo (Folkstone) e Daniele Marinelli a completare il quadretto; il tutto torna molto presto alla più totale delle furie distruttive in blast beat e il ritornello in botta e risposta tra Paolo e Francesco rimanda ai fasti di Agony. La parte centrale vira verso il death americano e il cerchio si chiude con la ripresa del refrain e un finale che, oltre a togliervi le ragnatele dal muro, ne processerà anche le intenzioni.

Sugar ormai la conoscete da un pezzo e come primo singolo ha fatto la sua porca figura mettendo in luce la direzione musicale intrapresa con Veleno. Non è il migliore dei brani dell’album ma il suo essere catchy e facilmente assimilabile lo rende un centro quasi perfetto. The Praying Mantis’ Strategy è un piccolo intermezzo strumentale che sfocia in un brano in grado di sorprendere e dedicato a uno dei più grandi capolavori dell’umanità. Monnalisa è una canzone melodica, ariosa e dal sorriso ammiccante come il dipinto che rappresenta. La strofa sussurrata, il ritornello sinfonico, i Fleshgod sanno anche scrivere brani “lenti” e “accessibili” in maniera egregia; quando poi pensi che sia stato detto tutto, tirano fuori un finale che ha del clamoroso e tutti a casa.

Worship And Forget torna a velocità incredibili e brutali a martellare I padiglioni auricolari dell’ascoltatore; la strofa ha una linea vocale che segue pari pari le chitarre e risulta abbastanza scolastica, il ritornello è ridotto all’osso e in questo caso la parte del leone è interpretata dal ponte, che è in grado di alzare il livello del brano in maniera esponenziale e lo rende assolutamente memorabile. Absinthe vale il prezzo del biglietto: pezzo pazzesco che si piazza di diritto tra i migliori mai composti dai Fleshgod. Nei suoi sei minuti parte in sordina in maniera epica e operistica e con Paolo sempre più isterico poi cresce, accelera, demolisce e la seconda parte entra di prepotenza nel progressive metal. Quando poi raddoppia la cassa apriti cielo; si riprende poi il tema principale che rimanda al caro e vecchio black sinfonico norvegese e si chiude non finendo mai di sorprendere.

Pissing On The Score è introdotta dal pianoforte di Francesco ed è un’ottima cavalcata che mischia death di matrice americana al sinfonico; le ripartenze sono micidiali, esplosive e gli assoli qui, come in tutto il resto del disco, offrono grandi trame e non sono mai mitragliate di note più o meno sensate. C’è grande cura per la melodia e l’atmosfera e Veleno ne guadagna in maniera grandiosa.

L’atmosfera ora cambia in maniera pesante: diventa lenta, decadente e malinconica, I Fleshgod fanno benissimo a puntare su Veronica e, come su King, le lasciano meritatamente un intero brano da protagonista. Viene sorretta da Francesco durante le fasi più acute del ritornello ma ciò che importa in questo frangente sono i brividi, che diventano d’obbligo e sacrosanti in un’overdose di teatro, cinema e componenti liriche che vanno a variare e spezzare una proposta onnivora e completa. Embrace The Oblivion è, coi suoi quasi otto minuti di durata, il brano più lungo di Veleno. Il riffing portante è svedese che più svedese non si può e sembra uscito da un disco degli At The Gates a caso; il ritornello in tremolo è arioso e allo stesso tempo malinconico, i sussurrati e i momenti più brutali si susseguono colpo su colpo e c’è anche spazio per Paolo. La traccia è trascinante e rappresenta il finale perfetto per un’opera che siamo certi manderà in visibilio i fan, ne creerà dei nuovi e avrà un grande successo in tutto il mondo. Il disco si chiude con la titletrack, lasciata nelle sapienti mani di Francesco Ferrini, che ancora una volta dimostra di essere un grandissimo compositore e arrangiatore.

Perché diciamo che Veleno è il miglior disco della carriera dei Fleshgod Apocalypse? Perché è il più completo e va a trovare quella quadratura del cerchio che era sempre stata a portata di mano ma mai raggiunta anche a causa di parecchi sbilanciamenti. Il livello della carriera di questi ragazzi è sempre stato alto ma una volta troppo melodici, una volta troppo barocchi, una volta troppo ampollosi e si ha avuto spesso la sensazione di vedere uno squalo girare perennemente intorno alla preda senza decidersi ad attaccare. Veleno finalmente sbrana tutto in maniera famelica e arriva al punto equilibrando tutti gli elementi  del sound dei Fleshgod, raggiungendo picchi di eccellenza invidiabili e mai scontati o banali. E’ un disco che convince in tutte le sue parti: dalla struttura dei brani alla produzione, dalle orchestrazioni fino al più piccolo degli assoli di matrice heavy, dalla sezione ritmica alla voce. Tutto svolge il suo lavoro alla perfezione e candida l’opera dei Fleshgod come miglior disco del 2019. Per non farsi mancare nulla, i nostri scelgono anche un certo Travis Smith per l’artwork e il cerchio si chiude.

Nell’edizione deluxe di Veleno saranno presenti una cover di Reise Reise dei Rammstein e The Forsaking in versione “Nocturnal”, oltre a un Blu Ray contenete la registrazione del concerto registrato a Perugia nel 2018.

Abbiamo detto proprio tutto, fiondatevi pure dal vostro spacciatore di dischi di fiducia ad acquistare una copia di Veleno, non rimarrete di certo delusi e siamo certi che girerà nel vostro lettore per parecchio tempo. Morandi nel 1985 cantava che uno su mille ce la fa, e quando capita a qualche italiano la cosa non può che riempirci di orgoglio. I Fleshgod Apocalypse attualmente sono una delle migliori band al mondo nel loro genere, fine della trasmissione.

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