Recensione: Venator
La produttività dei Mechina è davvero impressionante, quasi ai livelli dei miniprogetti black metal. Il progetto (difficile definirlo altrimenti) guidato da Joe Tiberi riesce, ormai da oltre dieci anni, a sfornare una nuova uscita quasi ogni anno. Oltre a ciò, va ricordata la specifica forma delle uscite: sempre in digitale, sempre con promozione indipendente, mai con una label, sempre con data di uscita simbolica il primo gennaio. Così è anche per “Venator”, decimo parto discografico degli statunitensi, che arriva a 365 giorni esatti dal precedente “Siege”.
Ora, dato che con “Siege” siamo arrivati ben in ritardo e lo abbiamo recensito a novembre, con “Venator” prendiamo la questione più di petto e ci muoviamo subito.
Parentesi concept: chi segue i Mechina sa che i loro album sono connessi e trattano una storia fantascientifica ambientata nel futuro (tipo dal 2154 al 2600 e cjapilu). Ecco gli album sono connessi ma non è che raccontano una storia in sequenza, bisogna mettere insieme i pezzi (e per farlo c’è sempre questa pagina qui Story Overview | The Mechina Wiki | Fandom). Del concept probabilmente parleremo in modo più diffuso nel recupero di qualche disco storico, cosa ci proponiamo di eseguire a breve. Per ora basti sapere che fin qui l’album più avanzato del concept è “Xenon“, uscito nel 2014. Ecco, “Venator”, ci pare di capire, parte proprio da “Xenon” e dovrebbe narrare la ricerca di vendetta da parte del personaggio principale dopo che gli hanno polverizzato il pianeta.
Venendo all’aspetto musicale invece, c’è da dire che “Venator” segue due album piuttosto interlocutori. “Telesterion” e “Siege” avevano sì visto una evoluzione, ma anche e una notevole riduzione della componente estrema (il growl si è praticamente estinto). Erano quindi risultati album lunghi (ciascuno oltre l’ora di durata a fronte di 8 tracce) e segnati soprattutto da atmosfere sospese e lente. Insomma, nonostante l’indubbia originalità del gruppo statunitense si può dire che le ultime prove erano risultate un po’ mosce a più di un fan.
“Venator” tenterà di metterci una pezza?
In realtà sì e no.
Intendiamoci, se avete già sentito i Mechina sapete cosa aspettarvi. Se non li avete sentiti andatevi a pescare “Progenitor” e “As Embers turn to dust” si tratta di un curioso death metal, anche abbastanza classico, non fosse che è contaminato da pesantissime iniezioni di elttronica, ora tamarra, ora iperpompata, ora quasi ambient.
Tornando comunque alla pezza, avevamo detto sì e no. Allora, il sì sta soprattutto nel fatto che in quest’album i Mechina aumentano il ritmo. I pezzi sono sempre otto, ma i minuti sono 50, e l’ascolto ne giova, il disco non pare sfilacciato. Anzi, tornano ad esserci episodi con ritmi decisamente sostenuti, come il singolo “Aphelion” o la meravigliosa “Praise Hydrus” (questa meritevole di un ascolto a prescindere). Anche il pezzo apripista o la title track, che non è così martellante, recupera molta della drammaticità che caratterizzava i vecchi lavori della band. E soprattutto hanno delle ottime melodie.
Ciò non vuol dire che si ritorni ad avere un disco estremo in tutto e per tutto. Anzi, qui vediamo, forse, il definitivo passaggio di testimone tra i due vocalist della band. Sia chiaro, David Holch è presente, ma i suoi growl sono confinati agli ultimi due episodi del disco (e che begli episodi, in particolare “When Virtue meets Steel”). E quando canta in clean, le sue vocals sono confinate al ruolo di comprimarie, di backing vocals alle spalle di Mel Rose, la singer femminile. Piccola precisazione: questo passaggio di testimone era nell’aria, si intuiva da tempo che sarebbe successo.
Oltre a questo, nella sopra citata “When Virtue meets Steel” troviamo il tempo per una comparsata di un’altra singer. Trattasi di Anna Hel che ogni tanto ha impreziosito alcune composizioni dei Mechina. E quindi viene un po’ da chiedersi se i nostri non vogliano diventare, anziché la solita band con tre strumentisti e un cantante, la prima formazione con uno strumentista e tre cantanti. Vedremo.
Detto questo, “Venator” a parere di chi scrive non aggiunge nulla alla discografia dei nostri (ma porta avanti il concept). Ciò che è positivo però è che questa nuova fatica di Tiberi e soci recupera il mordente che negli ultimi episodi era andato perso. “Venator” è un disco compatto e coeso, incalzante, sperimentale (che non guasta mai) e soprattutto molto, molto godibile.