Recensione: Vended
Una spada a doppio taglio quella della situazione Vended. Da una parte essere figli di Corey Taylor e Shawn Crahan degli Slipknot offre una spinta enorme, la possibilità che tanti parlino di te e della tua band, dando alla tua musica sicuramente una maggiore esposizione, ma dall’altra si correrà il rischio di essere visti come “raccomandati”, senza contare gli inevitabili paragoni con la gigantesca “band madre”.
D’altro canto, ascoltando questo disco omonimo della band americana, i paragoni con gli Slipknot sono difficilmente evitabili a partire dalla voce di Griffin Taylor, ma anche dal genere proposto che si avvicina molto a quello della storica band di Des Moines del primo periodo, tolti campionamenti e Dj. Bisogna però riconoscere allo stesso tempo tutto il talento di questi ragazzi che hanno già avuto, fra l’altro, una buona dose di esperienza quando si tratta di show dal vivo se pensiamo al recente tour con P.O.D e Jinjer. oltre ai live con gli stessi Slipknot. Bisogna anche notare come la band è stata fondata nel 2018, avendo all’attivo oltre a questo nuovissimo full-lenght anche un EP. Insomma. i ragazzi hanno avuto diversi anni per maturare prima di cimentarsi nel difficile scoglio della release del primo disco e ad essere onesti i singoli che hanno anticipato l’album ci hanno convinti non poco. Dei brani robusti, ben prodotti, ben suonati, forse un pelo troppo derivativi, ma che hanno mostrato in pieno il talento di queste giovani promesse.
Vended si presenta come un lavoro sintetico, da appena trentasette minuti di durata per tredici brani complessivi ed un disco che suona corposo e davvero ben prodotto, per uno stile aggressivo ma che non manca di componenti catchy, avvicinandosi al classico stile alternative/Nu Metal inevitabilmente ispirato da dischi seminali come Slipknot o Iowa (ma anche lo stesso Vol.3).
L’intro sinistra e minacciosa del platter da appena un minuto ci fa tuffare a capofitto nel primo brano Paint The Skin, con dei riffing cupissimi che si avvicinano al death metal, mischiati con quell’approccio chitarristico più classicamente alternative che ricorda tanto lo stile unico di un disco come Iowa. Il brano offre delle sezioni più groovose e trascinate, dal sound viscerale e macabro, mentre un sussulto ci pervade mentre sentiamo Griffin Taylor sussurrare “paint the skin, feel the pain”- davvero vocalmente la copia spiccicata del padre, e se la voce sporca ha sicuramente un connotato più unico, con quella in pulito sembra davvero di ascoltare il frontman degli Slipknot di venticinque anni fa – Oltretutto, sono in parte anche queste sezioni sussurrate che tanto ci ricordano le atmosfere opprimenti del debutto dei nove di Des Moines.
The Far Side offre dei riff assolutamente abrasivi e “in your face” che non lasciano scampo, mentre il build-up chitarristico del pezzo al minuto 0.58 ricorda tantissimo (forse fin troppo), quello della mitica Disasterpiece. Interessante la sezione in blast-beat coadiuvata dalla voce di Taylor che si destreggia tra scream e pulito in maniera impeccabile. C’è poi una sezione con il tipico “respiro affannoso” del vocalist, che richiama subito personaggi quali Jonathan Davis dei Korn e lo stesso Corey Taylor. Ottimo modo questo, per offrire quel senso di tensione e la band esegue il tutto in maniera assolutamente convincente, ma, ancora una volta, sono troppi e troppo evidenti, i richiami agli Slipknot. Questo fattore sarà un qualcosa di ricorrente in questa recensione ed un elemento che troverà alcuni fan interdetti, mentre altri ci passeranno sopra in maniera più leggera, concentrandosi di più sulla qualità dei pezzi in se, qualità assolutamente innegabili, specialmente nella prima parte del platter.
Am I The Only One porta delle aperture melodiche da parte della voce di Taylor molto godibili, il tutto accompagnati dai soliti riff di chitarra cupissimi, mentre una sorta di mini assolo in sottofondo, offre un nuovo elemento che fino ad ora non avevamo mai notato nel suddetto lavoro. In tutto questo va dato atto a Griffin Taylor di avere una voce davvero esplosiva e assolutamente coinvolgente sia nelle sue parti in scream che in quelle in pulito, un frontman che davvero sembra regalarci tutte le caratteristiche migliori del Corey Taylor di venti o venticinque anni fa.
Going Up è un interludio dal sapore quasi carnevalesco dove delle linee di basso pulsanti ci conducono direttamente alla traccia successiva, per un intermezzo che ha la sensazione di essere stato messo lì un pochino a caso, giusto per spezzare il ritmo dell’album.
Con Nihlism si ha uno dei brani più riusciti di questo lavoro e allo stesso tempo uno dei più intensi con dei blast-beat intensissimi e dei cori che ricordano molto quelli del brano H3LL (dall’ultimo platter degli Slipknot, The End, So Far) ma anche di All Hope Is Gone (title-track del disco con lo stesso nome). Interessante il breakdown molto groovoso e “bass-oriented” del pezzo, dove Taylor sussurra “why does everything feel so empty”. C’è anche quel “shut up and get the fuck inside” ripetuto in maniera ossessiva dallo stesso Taylor che ancora una volta dona al pezzo un vibe molto “Korniano”.
Forse è da questo punto in poi che l’album perde un pochino in qualità, anche se le atmosfere marce e disturbanti di un brano come Pitiful sanno davvero dipingere uno scenario horrorifico in maniera convincente, ancora una volta seppellendoci nel finale sotto un mare di blast-beat.
Serenity, nonostante l’assalto frontale iniziale, ha delle belle aperture melodiche, con Taylor che ancora una volta che si distingue per la bellezza delle sue parti vocali più melodiche. Quel “once again I don’t wanna hear it..” pronunciato da un sofferente Griffin, rappresenta ancora una volta un tuffo nel passato, stavolta verso lidi sonori più vicini a Vol. 3 The Subliminal Verses. Insomma, tutto molto bello, ma troppi, troppi richiami al passato e troppi passaggi che sanno di già sentito .Per il resto interessante l’assolo di chitarra di Where The Honesty Lies, il mini assolo di batteria di Simon Crahan in Downfall mentre la breve e conclusiva As We Know It presenta delle sezioni assolutamente malsane che ci riportando diretti nel vibe claustrofobico di Scissors (brano di chiusura del self-titled degli Slipknot).
In conclusione il debutto dei Vended di Simon Crahan e Griffin Taylor ci mostrano una band davvero di talento che è senz’altro in grado di comporre brani di assoluto impatto e qualità. Il problema risiede nell’eccessiva matrice derivativa che vede le sonorità proposte da questi giovani musicisti ancora troppo legate a quella dei nove titani mascherati. Troppe le sensazioni di “deja-vù” e di “già sentito” ascoltando questo album, che in tutta la sua bontà compositiva, troviamo peschi eccessivamente da quanto composto dai loro padri venti e passa anni fa in album seminali come Slipknot e Iowa. Per alcuni questo potrebbe non essere un difetto insormontabile, per altri lo sarà. In ogni caso una band dal grande potenziale, che ha solo bisogno di trovare la propria identità e riconoscibilità sonora in un processo di maturazione artistica che siamo sicuri avverrà con gli anni. Per ora ci sentiamo comunque di promuovere questo album di debutto seppur con qualche riserva.